Dal suo osservatorio privilegiato, di passaggi generazionali in azienda ne ha visti - e gestiti - in misura tale da accumulare un'esperienza specifica vastissima. Per questo, se gli si chiede quale sia l'aspetto più delicato da affrontare, Antonio Guarnieri, dottore commercialista e presidente del consiglio direttivo di Cortellazzo&Soatto, risponde senza esitazione: «La tempistica. Più del 40% delle imprese italiane è guidato da un titolare che ha superato i 60 anni e il passaggio generazionale è un processo che richiede molti anni di pianificazione e ha molteplici implicazioni, impattando a livello dell'impresa e della famiglia in modo molto importante».
Il problema dei problemi, quindi, è che c’è una tendenza ad attendere troppo prima di avviare questo processo?
«Proprio così. Il perché ce lo siamo chiesti spesso, dialogando anche con gli stessi imprenditori, e siamo giunti alla conclusione che, molto probabilmente, in questo atteggiamento rileva il fatto che, oggi, una persona di 70 anni non si sente affatto anziana ma anzi ancora nel pieno delle capacità lavorative e di essere la miglior guida per la propria azienda. E questo, a volte, lo porta a sottovalutare la necessità di pianificare il ricambio».
Questo ha a che fare con l'umana difficoltà a cedere potere?
«Certo, si teme di perdere il ruolo. Cosa che in realtà non è, perché un passaggio generazionale gestito in modo corretto non necessariamente deve condurre a un accantonamento del fondatore o del titolare. Si tratta, piuttosto, di inserire gradualmente la nuova generazione nell'azienda».
Cosa deve fare per prima cosa il professionista che affianca l'imprenditore per favorire questo processo?
«Innanzitutto, fargli prendere consapevolezza della necessità di avviarlo. Poi, è decisivo dotare l'impresa degli strumenti utili a gestire il processo, cominciando dal fatto che un inserimento non corretto di una figura nuova in azienda può provocare dei danni nei rapporti strategici con gli stakeholder, siano essi clienti, fornitori, rappresentanti del mondo finanziario o collaboratori interni all'azienda. Per questo serve molta gradualità, anche per evitare che i figli non vengano riconosciuti come leader da chi in azienda ci lavora da tempo. Uno degli step fondamentali, almeno nelle imprese strutturate, è proprio quello di dotare l'azienda di figure manageriali adeguate che facilitino l'inserimento e la formazione dei futuri leader».
Ma è proprio obbligatorio che un'azienda debba passare, come un'eredità, di padre in figlio?
«Assolutamente no. Uno dei passaggi più delicati del processo è approfondire se, all'interno della famiglia, ci siano le figure adeguate per proseguire l'attività. Obiettivamente, non sempre è così».
Par di capire che ci siano anche delle forti implicazioni psicologiche, non soltanto tecnico-giuridiche.
«É così. Non se ne vedono ancora molti, però confermo che si sta affermando una nuova specializzazione, quella dello psicologo d'impresa».
Ogni passaggio generazionale ha le sue caratteristiche peculiari che lo rende diverso da ogni altro?
«Esattamente. Non esiste uno schema fisso e riproducibile, sono talmente tante le variabili che serve un percorso "sartoriale", il quale richiede competenze molto diversificate. Prima di tutto, bisogna conoscere a fondo le caratteristiche della famiglia e dell'azienda. Non esiste una soluzione giusta in astratto».
Avete incontrato, nella vostra esperienza, figli che non ne hanno voluto sapere di subentrare ai genitori?
«È successo più volte e devo dire che è una dimostrazione di intelligenza, da parte del figlio, dichiarare questa sua indisponibilità, anche andando contro le aspettative della famiglia».
Qual è un caso emblematico tra quelli che vi siete trovati a sbrogliare?
«L'azienda di seconda generazione che si trova in mano a due fratelli soci al 50%. Un classico a Nordest. Quando arriva il momento di affrontare il tema della terza generazione, le cose si fanno veramente difficili e delicate. Ci vuole una grande oggettività nel saperlo gestire e qui il ruolo dei due fratelli è assolutamente fondamentale, per capire se e in che modo i rispettivi discendenti siano adatti a proseguire il loro percorso, sapendo che non sempre è possibile garantire pari ruoli a tutti. Ecco, a volte questo scoglio è particolarmente difficile da superare».