La lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: la disciplina risultante a seguito dei recenti interventi legislativi

Temi e Contributi
05/04/2013

Il D.Lgs. 9 novembre 2012 n. 192 è intervenuto a modificare, in attuazione della Direttiva 2011/7/UE del 16.2.2011 del Parlamento e del Consiglio Europeo, la disciplina nazionale in tema di lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, contenuta nel D.Lgs. 231 del 9 ottobre 2012.

Alla base della direttiva comunitaria, recepita dal legislatore interno, si pone la constatazione delle pesanti conseguenze derivanti, sul sistema economico e sociale europeo, in dipendenza del fenomeno, sempre più diffuso ed in costante aumento nonostante la precedente direttiva  (attuata in Italia appunto con il D.Lgs. 231/02), dei ritardati pagamenti nei rapporti commerciali.
Secondo quanto osservato, nel corso dell’iter di emanazione della direttiva del 2011, dal Comitato Economico e Sociale Europeo (parere 2010/C 255/07 del 17.12.2009), in certi stati “si è sviluppata la cultura del ritardo di pagamento, che è divenuta un comportamento diffuso con effetti particolarmente gravi dal punto di vista economico e sociale”.
Stando ai dati raccolti e diffusi dal Comitato nel suo parere (riferito alla situazione al dicembre 2009), il ritardato incasso dei crediti è all’origine, all’interno dell’Unione, di un fallimento su quattro, e causa la perdita di oltre 450.000 posti di lavoro ogni anno; effetti che risultano addirittura amplificati in periodi di crisi (nel 2009, a causa delle prassi inadeguate di pagamento, le imprese non hanno incassato 270 miliardi di euro, una cifra che rappresentava allora il 2,4% del PIL dell’intera UE).
Tuttavia, alla rilevazione di tale grave situazione, non è seguita l’adozione, in sede comunitaria, di prescrizioni altrettanto severe ed incisive; sicché il testo del D.Lgs. 231/02, quale risultante a seguito delle modifiche apportate in sede di recepimento dell’ultima direttiva, non ne esce rimaneggiato nella misura che, stanti le premesse, ci si sarebbe potuti attendere.
Anticipando per un momento quanto si osserverà in sede di analitica trattazione delle novità legislative, infatti, si può sin d’ora evidenziare come le uniche modifiche di un qualche spessore riguardino, più che l’aumento (di un punto percentuale) del c.d. “tasso legale di mora”, le scadenze di pagamento, essendosi rideterminati i limiti cui è sottoposta sotto tale aspetto la libertà delle parti contraenti (con eliminazione, in particolare, del richiamo ai limiti fissati dagli accordi sottoscritti dalle organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, di cui al precedente art. 4, quarto comma del Decreto).
Ma vediamo ora con ordine come si atteggia la disciplina del D.Lgs. 231/02 a seguito delle modifiche recentemente introdotte, destinate a trovare applicazione nei rapporti (transazioni commerciali) sorti a far data dal 1.1.2013:

  1. rimane sostanzialmente immutato l’ambito di applicazione della disciplina, che continua a ricomprendere le transazioni commerciali intercorrenti fra imprese, ovvero fra imprese e Pubblica Amministrazione (con la precisazione che, nel concetto di imprenditore, continua a rientrare anche il professionista); continuano a rimanere estranei alle previsioni del Decreto, come del resto è naturale in rapporto all’origine ed alle finalità della normativa, i contratti con i consumatori;
  2. viene mantenuta l’esclusione, dal raggio applicativo del Decreto: 1) dei debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, comprese quelle finalizzate alla ristrutturazione del debito (con perpetuarsi dunque delle incertezze applicative cui la medesima esclusione aveva dato luogo nel vigore della precedente disciplina, laddove alcuni Tribunali ritenevano tout court non ammissibili al passivo gli interessi ex D.Lgs. 231/02, altri ritenevano ammissibili solo quelli maturati prima dell’apertura della procedura); 2) dei pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno, compresi quelli effettuati dalle compagnie di assicurazioni;
  3. viene invece espunto, dal perimetro applicativo del Decreto, il tema dei ritardi di pagamento nel settore alimentare (scelta collegata al fatto che la materia forma oggetto dell’apposita disciplina recentemente adottata con il cd. “Decreto Liberalizzazioni” – entrata in vigore lo scorso 24 ottobre);
  4. rimane fermo il principio secondo cui il creditore ha diritto agli interessi moratori a meno che il debitore non dimostri che il ritardo nel pagamento è stato determinato dalla impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (principio, mutuato dalle norme generali del Codice Civile – art. 1218, che viene solitamente interpretato in senso assai restrittivo, tanto da non trovare pressoché alcuna applicazione in tema di obbligazioni pecuniarie);
  5. rimane altresì fermo il principio che gli interessi moratori cominciano a decorrere, dal giorno successivo alla scadenza di pagamento, in maniera automatica, ovverosia senza bisogno di costituzione in mora;
  6. quanto al termine di pagamento, esso rimane fissato in via generale (ovverosia in mancanza di diversa determinazione delle parti) in trenta giorni, decorrenti: 1) dalla data di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente; 2) dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento; 3) dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione di servizi; 4) dalla data dell’accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell’accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore abbia ricevuto la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in data anteriore (a loro volta, le procedure di accettazione o di verifica devono concludersi entro trenta giorni dalla consegna delle merci o dalla prestazione dei servizi, salva possibilità per le parti di pattuire termini maggiori purché non gravemente iniqui per il creditore);
  7. i termini di pagamento sono raddoppiati (e portati dunque a 60 giorni) per le imprese pubbliche tenute al ruispetto dei requisiti di trasparenza di cui al D.Lg.s. 333/2003 e per gli enti pubblici che forniscano assistenza sanitaria;
  8. viene mantenuta la possibilità per le parti di stabilire termini di pagamento superiori a quello legale, ma vengono modificati – e qui, come già anticipato, sta la maggiore novità del Decreto -  i limiti di una tale facoltà. Nelle transazioni fra privati, abbandonato il riferimento ai limiti previsti dalla contrattazione di categoria (vecchio art. 4, comma 4 del Decreto), si prevede che le parti possano liberamente prolungare il termine di pagamento sino a 60 giorni, mentre termini superiori saranno validi solo ove non siano “gravemente iniqui” per il creditore; nelle transazioni ove sia debitrice una P.A., le parti potranno convenire termini superiori a quelli legali solo quando ciò sia “giustificato dalla natura o dall’oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione”, ma in ogni caso con il limite massimo di 60 giorni. In sintesi: nelle transazioni fra privati non è soggetta a limiti la stipulazione di termini di pagamento compresi fra i 30 ed i 60 giorni (mentre sopra i 60 giorni la convenzione è valida solo ove non gravemente iniqua per il creditore); nelle transazioni ove sia debitrice una P.A., i 60 giorni rappresenteranno il limite massimo oltre il quale l’autonomia contrattuale non si potrà spingere. La ragione di tale differenziata disciplina – più favorevole per i privati che per le Pubbliche Amministrazioni (soggette a termini di pagamento che in nessun caso possono superare i 60 giorni) va individuata, secondo quanto si legge nei “considerando” della Direttiva recepita dal legislatore, nel fatto che, di regola, le P.A. godono di flussi di entrate più certi, prevedibili e continui rispetto alle imprese, e dunque dovrebbero fornire, almeno sulla carta, garanzie di maggiore puntualità / affidabilità anche nei flussi in uscita. Sia nel settore privato che nel settore pubblico vale poi la regola per cui i termini di pagamento devono essere pattuiti “espressamente” e le relative clausole vanno provate per iscritto;
  9. resta poi assicurata alle parti la facoltà di concordare pagamenti rateali. Al riguardo, il Decreto prevede che, in ipotesi di mancato pagamento di una delle rate alla scadenza concordata, gli interessi ed il risarcimento debbano essere calcolati esclusivamente sulla base degli importi scaduti. Curioso notare come il Decreto, tanto minuzioso nel regolare i termini dei pagamenti in unica soluzione, non detti alcuna prescrizione circa il tempo massimo di rateazione (che ben avrebbe potuto essere previsto, magari in rapporto all’entità dell’importo da corrispondere) o, almeno, circa l’intervallo di tempo da rispettare fra una rata e l’altra (è tuttavia ragionevole ipotizzare che anche gli accordi di rateazione, seppure non espressamente menzionati dall’art. 7 del Decreto, siano soggetti al limite, ivi previsto a pena di nullità, della “grave iniquità” per il creditore);
  10. quanto agli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento, ora definiti dal legislatore “interessi legali di mora”, essi vengono incrementati di un punto, e dunque stabiliti in misura pari al tasso di interesse applicato dalla BCE alle sue più recenti operazioni principali, maggiorato (non più di 7 ma) di 8 punti percentuali;
  11. quanto al risarcimento dei danni da ritardato pagamento, esso è forfetariamente determinato in 40 euro, salva la prova del maggior danno. Le parti tuttavia possono convenzionalmente escludere il risarcimento o ridurre l’importo del risarcimento forfetario, purché le relative pattuizioni non risultino gravemente inique per il creditore. In particolare, la clausola che esclude del tutto il risarcimento è soggetta alla presunzione relativa di grave iniquità (il che significa che potrà essere considerata valida solo ove il debitore dimostri che essa non è gravemente iniqua); la clausola che riduce l’importo forfettizzato è invece soggetta, quanto a giudizio di equità, al libero sindacato del giudice, non vincolato a presunzione alcuna (non si vede peraltro come l’esclusione del risarcimento, o la riduzione dell’importo forfettizzato, potrebbero dirsi eque, anche in ragione del già esiguo valore fissato in via generale dal Decreto);
  12. viene mantenuta, seppur con qualche modifica, la disposizione relativa alla nullità clausole contrattuali (collocata ancora all’art. 7 del Decreto). Il nuovo testo della norma, come anche il precedente, ricollega il giudizio di nullità (da compiersi anche d’ufficio ad opera del Giudice) al criterio della “grave iniquità”, stabilendo che “le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultino gravemente inique in danno del creditore”.

Sennonché la disposizione in questione si presenta, come si presentava nella precedente formulazione, assai problematica nella sua applicazione pratica, per la difficoltà di determinare, nella maggior parte dei casi, quando una determinata pattuizione contrattuale possa definirsi non solo iniqua, ma anche gravemente tale. A dire il vero, il legislatore nazionale (sulle orme di quello comunitario), si sforza di dettare dei criteri da seguire nella valutazione (come “il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio di interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfetario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero). Ma si tratta di criteri che poco vengono in soccorso, apparendo anch’essi indefiniti e fumosi, quasi quanto la clausola generale che dovrebbero specificare.
Ad ogni modo, la nuova stesura dell’art. 7 (innovando rispetto alla precedente), alleggerisce in parte il compito del Giudice, enucleando tre ipotesi in cui la grave iniquità deve presumersi esistente. Si presume innanzitutto gravemente iniqua, senza possibilità di prova contraria (presunzione assoluta), la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora; si presume poi gravemente iniqua, ma in questo caso con possibilità di prova contraria da fornirsi dal debitore (presunzione relativa), la clausola che esclude il risarcimento per i costi di recupero del credito; si considera infine gravemente iniqua (altra presunzione assoluta), nelle transazioni in cui sia debitrice una P.A., la clausola avente ad oggetto la predeterminazione o la modifica della data di ricevimento della fattura. Risulta difficile, allo stato, prevedere se le disposizioni del Decreto, così come modificate dal recente intervento legislativo, riusciranno (nonostante le incertezze applicative tuttora derivanti dalla poco agevole interpretazione di alcune clausole – quali ad esempio quella sulla “grave iniquità”) a centrare gli obiettivi che si propongono di perseguire.
Ciò che si può sin d’ora osservare è che un idoneo apparato di contrasto ai ritardi di pagamento dovrebbe comporsi, oltre che di regole sostanziali chiare ed uniformi, altresì di strumenti processuali in grado di consentire la sicurezza e la rapidità del recupero delle somme dovute. Il compito del legislatore, comunitario e nazionale, non potrà dunque ritenersi concluso sino a che non verranno elaborati strumenti, ulteriori a quelli già in essere (quali ad esempio il cd. decreto ingiuntivo europeo), capaci di ridurre significativamente i tempi, e connessi costi, di recupero dei crediti.   

a cura di: 

Avv. Giacomo Olivati

pubblicato su:

C&S Informa, volume 14, numero 2 anno 2013