“La valutazione d’azienda nei piani di risanamento in continuità nel CCII. alcune considerazioni operative", “Fallimenti e Società", giugno 2025

Temi e Contributi
23/06/2025

Premessa
Il presente contributo si propone di analizzare il ruolo della valutazione d’azienda nei piani di risanamento in continuità, intesa sia come strumento metodologico di supporto alla valutazione complessiva del piano, sia come presidio tecnico per la determinazione di parametri rilevanti nei diversi scenari contemplati dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (di seguito, per brevità, “CCII”), entrato in vigore il 15 luglio 2022 in attuazione della Direttiva UE 2019/1023, e successivamente oggetto di interventi correttivi ed integrativi.
È necessario premettere che nei percorsi della crisi d’impresa gli ambiti valutativi risultano molteplici e articolati, tanto con riguardo all’oggetto della valutazione (beni materiali e immateriali, partecipazioni, strumenti finanziari partecipativi, aziende o rami aziendali, canone di affitto azienda etc.), quanto ai soggetti coinvolti (organi della procedura, advisor, attestatori, periti, creditori, potenziali investitori), ai riferimenti temporali (valori storici, correnti, prospettici), nonché ai differenti principi, presupposti valutativi e coordinate di riferimento — normative, giurisprudenziali e di prassi.

Valutazione e continuità aziendale. Concetto di “crisi”.
In questa sede il perimetro dell’analisi è circoscritto alla stretta connessione tra piani di risanamento e la valutazione delle aziende in crisi nell’ottica della continuità aziendale o del suo ripristino, ipotesi che, pur non costituendo un presupposto imprescindibile tra le soluzioni della crisi previste dal CCII (è prevista anche l’ipotesi della liquidazione), trova una significativa valorizzazione nel contesto normativo vigente, anche in ragione del suo allineamento con le indicazioni dell’Unione europea, che incoraggiano soluzioni di superamento della crisi orientate al risanamento e alla conservazione del valore d’impresa.
Per comprendere appieno le implicazioni operative di tale impostazione, è utile soffermarsi sul concetto stesso di “crisi”, la cui definizione giuridica – come delineata dal CCII – non coincide con quella accolta dalla Dottrina economico-aziendale, dando luogo ad una rilevante asimmetria tra le due visioni.
Da un lato, il giurista, in base alla definizione oggi accolta nel CCII (che riflette le disposizioni della Direttiva (UE) 2019/1023), considera l’impresa in crisi quando emergono squilibri di natura finanziaria tali da rendere probabile l’insolvenza, attivando così l’esigenza di un intervento, anche mediante meccanismi di emersione anticipata degli squilibri gestionali, con presìdi organizzativi interni ed il ricorso alla composizione negoziata, che dovrebbero rappresentare una fase preliminare utile a prevenire l’aggravarsi delle difficoltà, e/o costituire il presupposto per l’eventuale accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza propriamente detti.
È quella che si definisce “insolvenza commerciale” o “sbilancio di cassa”.
Dall’altro lato, lo studioso delle discipline economico-aziendali rileva la crisi già nella perdita di equilibrio economico e gestionale, ovvero quando la redditività dell’impresa si riduce strutturalmente compromettendo la generazione di valore e la sostenibilità del modello di business, anche in assenza di un’imminente esposizione all’insolvenza. Trattasi della “insolvenza tecnica” o “sbilancio di valore”(2).
L’asimmetria tra le due prospettive si riflette in una contrapposizione di interessi e logiche gestionali: nelle aziende in crisi, infatti, si genera spesso un conflitto tra una gestione per cassa orientata alla salvaguardia della liquidità per soddisfare prima possibile i creditori e una gestione economica finalizzata al ripristino della redditività e al recupero del valore d’impresa. La prima, seppur necessaria nel breve termine, può finire per compromettere — se non correttamente bilanciata — il raggiungimento dell’equilibrio economico e la reale sostenibilità del risanamento nel medio-lungo periodo.
Come detto, da qualche anno la disciplina della gestione della crisi e dell’insolvenza d’impresa è contenuta nel CCII, ispirato alla Direttiva (UE) 2019/1023, che pone come obiettivo prioritario la prevenzione della crisi e la salvaguardia della continuità aziendale, privilegiando strumenti di soluzione negoziali ed extragiudiziali rispetto alla liquidazione.
Il modello adottato dal legislatore italiano si inserisce in quelli che vengono definiti sistemi premiali o misti, orientati a favorire il risanamento dell’impresa e a valorizzare il ruolo attivo dell’imprenditore, pur nella consapevolezza che un’eccessiva enfasi sulla continuità possa generare, in alcuni casi, un effetto paradossale di distruzione di valore, alimentando una cultura della sopravvivenza fine a sé stessa(3).
In quest’ottica, il CCII non si limita a introdurre strumenti per la regolazione delle situazioni di crisi e insolvenza, ma mira a rafforzare la capacità delle imprese ad individuare precocemente i segnali di squilibrio e ad attivare tempestivamente misure idonee a reagire in modo efficace.
Nell’ambito di questa architettura multilivello, che comprende misure di natura stragiudiziale, para-concorsuale e concorsuale, trova spazio l’istituto della composizione negoziata, percorso di natura anticipatoria/privatistica riservato alle imprese che versano in una situazione di difficoltà, anche in stato di insolvenza, ma per le quali sussistano concrete prospettive di risanamento. Figura centrale nella composizione negoziata è l’Esperto indipendente, chiamato ad assistere le parti nel confronto e a valutare le soluzioni prospettate.

Il precario equilibrio tra il valore della continuità aziendale e la soddisfazione dei creditori.
Per quanto la stessa Direttiva 2019/1023 e i lavori preliminari all’introduzione del CCII enfatizzino l’importanza dell’azienda in continuità come bene di rilevanza sociale e sottolineino in più punti l’esigenza di tutela della forza lavoro, tali profili non assumono lo stesso rango di interesse protetto in via autonoma rispetto alla soddisfazione dei creditori sociali. In altri termini, nel CCII l’interesse alla prosecuzione dell’attività d’impresa – anche se orientato alla salvaguardia occupazionale – è rilevante solo nella misura in cui risulti funzionale, nel breve o medio termine, alla massimizzazione della soddisfazione dei creditori, senza assurgere, se non in via mediata, a valore autonomamente tutelato e preminente.
La buona riuscita del piano di risanamento, in questa prospettiva, rappresenta un mezzo per conseguire l’obiettivo primario della soddisfazione dei creditori e solo in via subordinata il ripristino dell’equilibrio e del valore aziendale. Ciò significa che, dal punto di vista dei creditori, la fattibilità del piano è valutata principalmente sulla base dell’entità della soddisfazione attesa e dei tempi di realizzo delle utilità promesse. È dunque anche — se non soprattutto — in ragione dell’interesse primario del ceto creditorio che, in tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza orientati alla continuità aziendale, sia essa diretta o indiretta, assume carattere imprescindibile la preventiva verifica della sostenibilità economico-finanziaria del piano, normalmente oggetto di attestazione da parte di un professionista indipendente.
Tale valutazione costituisce, peraltro, il presupposto fondamentale di ogni processo di analisi dell’azienda in crisi che si sviluppa nella fase di diagnosi, attraversa la gestione della crisi e culmina nella riorganizzazione o ristrutturazione dell’impresa(4). In ogni caso, quindi, anche nell’ambito della valutazione del piano sulla base della sua capacità di generare utilità per i creditori, assumono rilievo centrale gli elementi valutativi funzionali a stimare gli esiti attesi della ristrutturazione operativa e finanziaria, tenendo conto delle ipotesi di risanamento formulate e delle variabili specifiche che caratterizzano la realtà aziendale oggetto di intervento.
Non di rado, tuttavia, risulta assente un’adeguata analisi fondamentale, in grado di ridurre le asimmetrie informative tra azionisti, stakeholders e creditori, con riguardo a:

  1. i rischi connessi all’attuazione del piano;
  2. la capacità dell’impresa di riconquistare, al termine del piano, una condizione di parità competitiva nel proprio mercato di riferimento.

È proprio in tale ambito che si può evidenziare la distanza tra un piano che sottende un valore meramente “sperato” o potenziale e un progetto costruito razionalmente secondo configurazioni tecniche validate e coerenti con i principi valutativi di riferimento.

La verifica della convenienza della proposta rispetto alle “alternative concretamente praticabili”.
L’esigenza di massimizzare la soddisfazione del ceto creditorio impone un secondo fondamentale momento valutativo: la verifica della convenienza della proposta rispetto alle “alternative concretamente praticabili”.
Da una lettura sistematica del CCII emerge che il Legislatore ha voluto indicare come unico parametro di riferimento per tale comparazione il valore realizzabile in sede di liquidazione giudiziale o, se fattibile, secondo un’interpretazione di natura giurisprudenziale e dottrinale, nell’ambito dell’istituto dell’Amministrazione Straordinaria(5).
Si noti che, in ragione dell’asimmetria di interessi già evidenziata, l’alternativa liquidatoria di tipo concorsuale può, in taluni casi, risultare preferibile alla continuità aziendale, qualora quest’ultima comporti tempistiche più dilatate o sacrifici economici più gravosi per il ceto creditorio a fronte magari di una possibilità di realizzo di asset proficua e maggiormente celere(6).
Tale considerazione conferma che la continuità aziendale nel CCII non costituisce un valore assoluto, bensì un’opzione da valutare criticamente alla luce dell’interesse primario della massimizzazione della soddisfazione dei creditori.
In questa prospettiva, la preferibilità della soluzione va misurata in base alla concreta capacità del piano di assicurare un esito migliore rispetto all’alternativa liquidatoria, secondo un giudizio comparativo fondato su elementi più possibile oggettivi, verificabili e coerenti con il contesto normativo.
La verifica del valore in ipotesi di liquidazione giudiziale assume un ruolo centrale quale parametro di riferimento trasversale ai diversi istituti disciplinati dal CCII, ivi compreso il percorso della composizione negoziata della crisi.
Essa rappresenta infatti un criterio di sostenibilità economico-giuridica della proposta di risanamento e, nei procedimenti di natura pre-concorsuale o concorsuale, costituisce un vero e proprio requisito di legittimità ai fini dell’accesso alla procedura o della successiva omologazione.
Il concetto di “sostenibilità”, in tale contesto, va inteso non solo in termini di fattibilità economica, ma anche in senso “coercitivo”, ossia quale capacità della proposta di legittimare — sul piano giuridico — l’imposizione di effetti nei confronti di creditori dissenzienti, a titolo individuale o con riferimento alla classe di appartenenza. Ci si riferisce, in particolare, ai casi previsti dal CCII in cui è consentito il superamento del dissenso di uno o più creditori attraverso istituti quali il cram down interclassi, la falcidia dei crediti tributari e previdenziali, o — come verrà meglio evidenziato — l’applicazione della Relative Priority Rule (RPR) nel concordato in continuità.

Il nucleo nevralgico: il valore di liquidazione.
Per i motivi esposti in sunto al paragrafo che precede, diventa necessaria una corretta determinazione del valore di liquidazione, parametro centrale nel giudizio di convenienza, la cui attendibilità deve essere verificata lungo il percorso di ciascuno degli strumenti di regolazione della crisi.
Tale verifica coinvolge soggetti tra loro distinti per ruolo e funzione — il debitore, il professionista indipendente (attestatore) e, ove previsto, il commissario — ciascuno chiamato, nell’ambito delle proprie competenze, a valutare la coerenza e la plausibilità del valore stimato, quale base per la comparazione con l’alternativa liquidatoria.
Il confronto con lo scenario liquidatorio assume rilievo anche con riferimento a specifiche categorie di creditori per le quali il piano prevede un sacrificio particolare. Ne costituiscono esempio:

  • le ipotesi di accesso agli istituti della transazione fiscale e/o previdenziale (artt. 63 e 88 CCII), in cui la verifica della convenienza deve essere effettuata con esclusivo riferimento alla posizione dell’ente impositore o previdenziale coinvolto, limitatamente alla quota di credito oggetto di trattamento;
  • i casi in cui il piano interessi creditori finanziari assistiti da garanzie pubbliche (quali Mediocredito Centrale in qualità di gestore del Fondo di garanzia per le PMI), prevedendo l’adesione a soluzioni di ristrutturazione che comportino falcidie o rimodulazioni del credito garantito: anche in tali ipotesi, è richiesta una valutazione autonoma di convenienza, riferita alla posizione del garante, che dovrà accertare se il piano consenta un soddisfacimento più favorevole rispetto a quanto conseguibile in sede di liquidazione giudiziale.

Il valore di liquidazione, inoltre, riveste un ruolo centrale anche nella valutazione delle proposte di concordato preventivo in continuità aziendale, in forza di una previsione opzionale introdotta dalla Direttiva (UE) 2019/1023, e recepita nel CCII attraverso l’art. 84, comma 6. Ai sensi di tale norma, il valore di liquidazione delimita l’ambito di applicazione della regola della priorità assoluta (Absolute priority rule – APR), consentendo, per il differenziale tra tale valore e quello offerto ai creditori, l’applicazione della regola della priorità relativa (Relative priority rule – RPR)(7).
Come noto, il principio dell’Absolute Priority Rule (APR) impone che i creditori siano soddisfatti integralmente, secondo l’ordine di graduazione dei loro crediti, prima che possa essere attribuito qualsivoglia valore o beneficio ai soggetti posti in rango subordinato, inclusi i soci.
La Relative Priority Rule (RPR) consente invece una maggiore flessibilità rispetto all’APR in quanto permette ai creditori subordinati di ricevere un pagamento, anche se i creditori di grado superiore non sono stati integralmente soddisfatti, purché questi ultimi godano di un trattamento, comunque, più favorevole di quello di grado inferiore(8).
Diviene, quindi, ancora una volta importante l’inquadramento del concetto di “valore di liquidazione” che, come detto, si desume da una lettura sistematica del Codice della Crisi e viene ricondotto alla definizione contenuta nell’art. 87, co. 1, lett. c), come modificato dal D.lgs. 136/2024, laddove descrive il contenuto obbligatorio del piano di concordato prevedendo tra gli altri l’indicazione del “..valore di liquidazione alla data della domanda di concordato, corrispondente al valore realizzabile, in sede di liquidazione giudiziale, dalla liquidazione dei beni e dei diritti, comprensivo dell’eventuale maggior valore economico realizzabile nella medesima sede dalla cessione dell’azienda in esercizio nonché delle ragionevoli prospettive di realizzo delle azioni esperibili al netto delle spese.”.
Per quanto riguarda la valutazione del valore di realizzo, gli scenari di riferimento richiamati dalla definizione poc’anzi enunciata, riferibili ad un contesto di liquidazione giudiziale, sono riconducibili, in via tipica, alle seguenti configurazioni:

  • la liquidazione atomistica, consistente nella disgregazione e nella vendita puntuale dei singoli asset aziendali, in assenza di qualsivoglia continuità gestionale o produttiva;
  • la liquidazione in funzionamento a finire, che presuppone una prosecuzione temporanea dell’attività aziendale, mediante esercizio provvisorio, finalizzata unicamente allo smaltimento delle commesse in corso e alla valorizzazione ordinata degli attivi;
  • la liquidazione in continuità (indiretta), realizzabile mediante la cessione dell’azienda (o di suoi rami) nell’ambito di un esercizio provvisorio, oppure — nei casi in cui ne ricorrano i presupposti — attraverso l’accesso alla procedura di amministrazione straordinaria, laddove tale modalità consenta di ottenere un valore di realizzo superiore rispetto a quello conseguibile tramite la liquidazione atomistica.

A tali scenari deve essere aggiunto il valore potenziale rappresentato dalle somme recuperabili per mezzo dell’esperimento di azioni risarcitorie o revocatorie proponibili nell’ambito della procedura concorsuale.
In ipotesi di piano di risanamento in continuità sia diretta che indiretta l’alternativa liquidatoria in sede concorsuale può concretizzarsi in una vendita dei singoli asset piuttosto che nella cessione dell’azienda in funzionamento nell’ambito di un esercizio provvisorio gestito dal curatore su autorizzazione del Tribunale (o dall’organo commissariale in caso sia prevista la possibilità di accesso all’amministrazione straordinaria).
L’ipotesi di liquidazione atomistica, di regola, si configura nei casi in cui sia ragionevole presumere che la procedura concorsuale determinerebbe l’interruzione dell’attività d’impresa, senza possibilità di usufruire dell’esercizio provvisorio.
Tale scenario si verifica, ad esempio, quando l’operatività dell’azienda risulta strettamente legata ad autorizzazioni o a contratti che si risolvono in ipotesi di liquidazione giudiziale, ma anche quando la vitalità dell’azienda dipende dall’imprenditore, sia sotto il profilo delle competenze tecniche e relazionali, sia in termini di gestione diretta e insostituibilità e l’azienda in sé non sia in grado di attrarre potenziali acquirenti come entità economica a sé stante. Si tratta di un’eventualità tutt’altro che infrequente, considerate le caratteristiche strutturali del tessuto produttivo italiano composto per circa il 90% da microimprese, spesso fondate e gestite da soggetti fisici senza una reale autonomia organizzativa o manageriale dell’impresa rispetto alla figura dell’imprenditore.
In tali circostanze, la liquidazione dei beni può avvenire in modo disaggregato e isolato, senza alcuna valorizzazione del complesso aziendale, tipicamente con riflessi negativi sul valore di realizzo e, conseguentemente, sulla soddisfazione dei creditori.
Ben più articolato è il confronto con lo scenario in cui si ipotizza la continuità in sede concorsuale:

  • nel caso di un piano con continuità diretta, la comparazione con l’alternativa liquidatoria incontrerebbe difficoltà logico-operative nella valutazione ex ante degli esiti di una cessione in un contesto di esercizio provvisorio;
  • nel caso di continuità indiretta, oltre al problema della valutazione ex ante, il confronto si complica maggiormente se nel piano è già previsto l’intervento di un soggetto terzo, che manifesta interesse all’acquisto dell’azienda (o di suoi rami) a condizioni espresse in un’offerta vincolata all’omologazione di un accordo di ristrutturazione o di un concordato preventivo.

Nella seconda ipotesi si assiste di frequente nella pratica all’adozione di un approccio che equipara automaticamente il valore offerto nel piano dal soggetto terzo al valore realizzabile dal curatore in sede di esercizio provvisorio, a cui però viene sommato l’eventuale provento da azioni risarcitorie o revocatorie: da qui il rischio di una sistematica preferenza per la soluzione liquidatoria.
Tale impostazione spesso risulta distorsiva, in quanto può trascurare le incertezze legate al contesto procedurale, alle tempistiche, ai limiti autorizzativi, all’effettiva capacità del curatore di gestire l’esercizio provvisorio e di concludere efficacemente la cessione alle condizioni offerte nel piano originario.
Se gli scenari relativi alla liquidazione giudiziale sono chiari, non altrettanto lo sono i principi di valutazione delle aziende ai quali fare riferimento. Certamente un adeguato supporto interpretativo può essere fornito dai PIV (Principi italiani di valutazione) e dal Discussion Paper n. 1/2025 “La valutazione delle aziende in crisi” dell’Organismo Italiano di Valutazione (OIV), oltre che dai documenti derivanti dalle esperienze USA(9).

Il valore di liquidazione: riferimento temporale della stima.
Nella costruzione valutativa una delle domande fondamentali che ci si deve porre riguarda il momento temporale al quale ancorare la stima del valore dell’azienda.
Tale questione diviene particolarmente rilevante nella determinazione del valore di liquidazione, sia in ambito concorsuale che preconcorsuale, in quanto nel CCII si manifesta una criticità spesso sottovalutata: la disomogeneità dei momenti di riferimento che le varie disposizioni del Codice stesso richiedono a seconda dello strumento giuridico impiegato per la regolazione della crisi. Questa eterogeneità temporale non è priva di conseguenze: incide direttamente sull’esito della valutazione comparativa tra il piano proposto e l’alternativa liquidatoria (la cosiddetta “best interest of creditors test”), condizionando la verifica di convenienza per i creditori e la stessa legittimità della proposta nei procedimenti di omologazione.
L’assenza di un criterio uniforme di riferimento — se al momento della presentazione del piano, dell’attestazione, dell’omologazione o di una futura ipotesi di liquidazione giudiziale — genera margini di discrezionalità e possibili incoerenze applicative, che richiedono un approccio metodologico chiaro e coerente, fondato sul principio della valutazione in funzione dello scopo (valuation for purpose).
Nei procedimenti di composizione negoziata, negli accordi di ristrutturazione dei debiti, nella transazione fiscale e nel concordato preventivo, il confronto tra il valore generato dal piano e quello conseguibile in sede liquidatoria dipende da logiche temporali differenti.
Queste variano in base a:

  • l’assenza di una data predefinita (ad esempio, nel caso della composizione negoziata),
  • la data di presentazione della domanda (come previsto dall’art. 87, comma 1, lett. c) CCII nel concordato preventivo),
  • la data di deposito della domanda per l’omologazione (come negli accordi di ristrutturazione dei debiti),
  • altri riferimenti variabili come nelle transazioni con enti pubblici ai sensi degli artt. 63 e 88 CCII (transazione fiscale e previdenziale).

Questa eterogeneità di riferimenti temporali introduce elementi di incertezza valutativa e può generare effetti distorsivi nel giudizio di convenienza richiesto dalla legge, in particolare quando i diversi istituti giuridici si sovrappongono. Il rischio principale consiste nel fatto che possano essere attribuiti all’ipotetico scenario liquidatorio valori che, in realtà, sono stati già generati durante il periodo di continuità aziendale in attuazione del piano e secondo le ordinarie dinamiche aziendali, prima ancora che si realizzi il momento normativo previsto per il confronto.
Non si tratta solo di flussi prospettici, ma anche di realizzi effettivi (ad esempio: vendite, incassi, dismissioni, ottimizzazioni operative…) che si sono verificati durante una fase interinale, i cui effetti economici sono strettamente legati al piano di risanamento, e non a una liquidazione giudiziale che, di fatto, non si è mai verificata.
Attribuire i risultati perseguiti alla liquidazione giudiziale, anziché al piano di risanamento, rischia di produrre una penalizzazione ingiustificata della proposta del debitore. Una simile impostazione, infatti, può condurre ad una sovrastima del valore liquidatorio, alterando l’esito del confronto di convenienza e, in ultima analisi, ostacolando l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi, i quali perseguono l’obiettivo di preservare la continuità aziendale. In quest’ottica, si rende opportuna una riflessione sistemica sulla necessità di armonizzare i criteri valutativi e i momenti temporali di riferimento. L’intento è evitare che la tecnica comparativa – strumento deputato a misurare la convenienza della proposta – produca, per contro, effetti regressivi e paradossali, pregiudicando gli interessi tanto dei creditori quanto del debitore.

Il valore attribuito ai soci nel concordato preventivo in continuità: problematiche applicative e proposte di soluzione.
L’esigenza di coerenza valutativa si fa ancora più stringente quando la proposta concordataria in continuità prevede l’attribuzione di un valore residuo anche in favore dei soci, in quanto residual claimants(10).
In questi casi, infatti, emerge un ulteriore, cruciale profilo valutativo strettamente connesso al confronto di convenienza, che impone di stimare in modo attendibile il valore economico complessivo generato dalla continuità aziendale e di valutarne la compatibilità con attribuzioni patrimoniali ai soci – o, più in generale, ai soggetti titolari di strumenti finanziari che conferiscono il diritto di acquisire partecipazioni – preesistenti alla presentazione della domanda(11).
Il Codice della Crisi affronta espressamente tale tematica all’art. 120-quater, riconoscendo che la legittimità di tali attribuzioni dipende dalla sostenibilità economico-giuridica della proposta, anche alla luce dell’interesse prioritario dei creditori. In tal modo, la distribuzione del valore non può prescindere da una valutazione rigorosa e trasparente della sua formazione, che deve riflettere l’effettivo apporto del piano rispetto allo scenario alternativo di liquidazione.
L’obiettivo del legislatore è chiaro: evitare che ai soci, che comunque si ritiene opportuno non escludere dal processo di ristrutturazione, vengano attribuite utilità sproporzionate o non giustificate rispetto all’entità del sacrificio imposto ai creditori.
Per contemperare tale esigenza l’art. 120-quater del CCII introduce una condizione imprescindibile per l’omologazione del piano in presenza di una classe di creditori dissenziente: il concordato può essere omologato con attribuzioni di valore ai soci solo se la distribuzione di tale valore alle classi di creditori di pari grado o di grado inferiore rispetto alla classe dissenziente non comporterebbe per queste ultime un trattamento più favorevole rispetto a quello riservato alla classe dissenziente.
In altri termini, è sufficiente che la classe dissenziente riceva un trattamento non meno favorevole rispetto a quello delle classi di pari grado e di grado inferiore, anche in ipotesi di redistribuzione del valore destinato ai soci(12).
Per rimediare all’assenza, nella versione originaria della norma, di un criterio tecnico per la determinazione del “valore effettivo” riservato ai soci, il legislatore è intervenuto con l’art. 27 del D.lgs. 13 settembre 2024, n. 136 (cosiddetto “correttivo ter”), integrando il secondo comma dell’art. 120-quater con la seguente previsione: “il valore effettivo è determinato in conformità ai principi contabili applicabili per la determinazione del valore d’uso, sulla base del valore attuale dei flussi finanziari futuri utilizzando i dati risultanti dal piano di cui all’articolo 87 ed estrapolando le proiezioni per gli anni successivi”.
L’intervento, pur animato dall’intento di chiarire i presupposti valutativi dell’attribuzione residuale ai soci, solleva non poche criticità interpretative(13).
Innanzitutto, l’utilizzo del termine “valore effettivo” si rivela problematico sotto più profili: in primo luogo, l’aggettivo “effettivo” risulta semanticamente inappropriato in riferimento a un’impresa in stato di crisi. Il valore di una realtà soggetta a ristrutturazione non può essere effettivo in senso attuale, ma solo potenziale, poiché dipende dal successo (incerto) del piano di risanamento.
In secondo luogo, il richiamo al “valore d’uso” si presenta incongruente rispetto alla finalità perseguita dalla norma. Secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS) e nazionali (OIC), il valore d’uso esprime una configurazione basata sulle condizioni operative correnti, escludendo i benefici futuri derivanti da interventi migliorativi o da strategie di turnaround, che invece costituiscono l’essenza del piano di concordato in continuità. Ne deriva una tensione irrisolta tra: il presupposto normativo che impone di ancorare la stima ai flussi generati dal piano (art. 87 CCII), e la configurazione contabile richiamata, che, in ossequio ai principi tecnici, non consente di incorporare quei medesimi flussi migliorativi.
Il risultato è un impianto normativo di difficile applicazione pratica che impone al valutatore di stimare un valore derivante da un presupposto (il piano) che, tuttavia, non può essere pienamente rappresentato nella configurazione tecnica indicata dalla norma, pena la violazione dei principi contabili. In altri termini, si affida alla categoria del valore d’uso un contenuto che ne travalica l’ambito applicativo, esponendo la stima a margini di incertezza e a contestazioni sulla legittimità delle attribuzioni.
Una configurazione concettualmente e tecnicamente più adeguata sarebbe stata quella del “Reorganization Value” elaborata dai principi contabili statunitensi (FASB ASC 852 – Topic 852), che definisce: “il valore attribuito all’entità riorganizzata (post approvazione del piano) e al valore netto realizzabile atteso per quegli asset che saranno dismessi prima del completamento della riorganizzazione. Tale valore esprime il valore dell’entità prima di considerare le passività e approssima il prezzo che un terzo sarebbe disposto a pagare per gli asset dell’entità immediatamente dopo la riorganizzazione.” Tale definizione avrebbe consentito di:

  • attribuire al termine “effettivo” un significato realistico, legato a un valore economicamente realizzabile, ossia il prezzo ipotetico di mercato post omologa e non a un valore astratto;
  • riferirsi all’intero patrimonio aziendale riorganizzato, ossia al Total Enterprise Value, includendo tutte le attività e non solo il capitale investito netto (che è il perimetro tipico del valore d’uso);
  • legittimare il ricorso a una pluralità di tecniche valutative – DCF, multipli di mercato, multipli di transazioni – in coerenza con la prassi valutativa e con il principio della triangolazione dei metodi.

Al contrario, il legislatore, richiamando il solo valore d’uso:

  • ha escluso il riferimento a un valore di scambio (value in exchange), ovvero al concetto di prezzo, orientandosi invece verso un hold value, cioè un valore “interno” basato sull’utilità per l’attuale entità economica;
  • ha prescelto un’unica configurazione valutativa, il DCF unlevered, senza consentire un confronto con altri approcci di controllo, in contrasto con le best practice;
  • ha indebolito l’affidabilità della stima del “valore riservabile” ai soci, generando un potenziale contenzioso in sede di omologa.

 

Conclusioni.
La valutazione delle aziende in crisi deve cessare di essere un esercizio meramente formale, fondato su “calcoli valutativi” derivati da modelli elaborati per imprese in equilibrio, semplicemente adattati attraverso generici “sconti per crisi”. Occorre invece una valutazione autentica, costruita su un’analisi critica, sostanziale e aderente alla realtà specifica dell’impresa.
Un approccio meccanicistico rischia infatti di sottovalutare imprese meritevoli di rilancio e, al contrario, attribuire valore ad attività prive di prospettive, compromettendo così l’efficacia degli strumenti di regolazione della crisi.
Non è necessario abbandonare i criteri valutativi tradizionali — Discounted Cash Flow, multipli di mercato, valore patrimoniale netto — ma è essenziale applicarli con consapevolezza e rigore metodologico in contesti segnati da profonde discontinuità. In tali scenari, in cui vengono meno i presupposti di equilibrio e si generano interdipendenze complesse tra valore dell’attivo e struttura finanziaria, i modelli standardizzati si rivelano inadeguati. Serve un’analisi “caso per caso”, svincolata da automatismi, che coniughi lettura aziendale, giudizio critico e capacità interpretativa.
In questo contesto, la figura dell’Esperto nella composizione negoziata assume valore emblematico: egli è chiamato, in tempi ristretti, a esprimere un giudizio sulla ragionevole perseguibilità del risanamento. Un ruolo che richiede competenze multidisciplinari, capaci di integrare la cultura dei controlli con la conoscenza giuridica e la sensibilità per la gestione d’impresa.
Tuttavia, l’impianto normativo attuale risente ancora di un eccessivo sbilanciamento verso la dimensione giuridico-formale, trascurando l’apporto imprescindibile della scienza aziendalistica e delle competenze valutative specialistiche.
È evidente la mancanza di un confronto strutturato tra legislatore, operatori economici e professionisti della valutazione. Il rischio è quello di una disciplina incompleta, incapace di incidere realmente sull’esito delle situazioni di crisi, se non accompagnata da strumenti tecnici condivisi e da una cultura economico-manageriale adeguata. È dunque necessario colmare questo squilibrio, promuovendo una vera contaminazione tra diritto e cultura d’impresa. Serve un impianto che non si limiti a fornire regole procedurali, ma che offra anche contenuti economici, industriali e strategici. In questa direzione, si impone l’urgenza di elaborare linee guida tecnico-valutative consolidate, analoghe ai principi contabili, in grado di orientare l’azione dei professionisti anche in contesti di discontinuità e di incertezza. Solo attraverso tale evoluzione culturale e metodologica sarà possibile rafforzare la qualità delle decisioni assunte nei percorsi di composizione della crisi, riducendo la soggettività, aumentando la trasparenza e migliorando l’efficacia complessiva degli interventi. La valutazione dell’impresa in crisi non è un passaggio accessorio o meramente tecnico: è una leva determinante per accertare la fattibilità del risanamento e la convenienza comparata delle alternative.
Il Codice della Crisi ha introdotto un approccio innovativo alla gestione delle difficoltà aziendali; spetta ora ai professionisti, alla dottrina e agli interpreti trasformare tale impianto in uno strumento realmente operativo e fondato sulla competenza. La sfida dei prossimi anni sarà quella di rendere la valutazione un processo rigoroso, condiviso e metodologicamente solido, al servizio non solo della legalità, ma della continuità e del rilancio dell’impresa.
Solo così si potrà traghettare il sistema da una logica difensiva a un modello realmente orientato al risanamento.

 

   

1 Il Contributo rappresenta la versione scritta dell’intervento del 26 maggio 2025 offerto in occasione della presentazione, presso l’Aula Magna dell’Università “Bocconi” di Milano, del libro del Prof. Mauro BINI, La valutazione delle aziende in crisi (dalla sottoperformance alla liquidazione), EGEA 2025.

2 Per una disamina dei concetti di “insolvenza commerciale” e di “insolvenza tecnica” vedi M.BINI, op. cit., pag. 203 ss. L’Autore sottolinea le apparenti incongruenze della Direttivaì 1023/2019 laddove da un lato il legislatore comunitario “dichiara di voler perseguire obiettivi di ristrutturazione precoce per le aziende sane” e dall’altro “fa riferimento ad una insolvenza imminente segnalata da un’allerta precoce”.

3 Con riguardo alle diverse soluzioni normative per prevenire e gestire l’insolvenza cfr. M.BINI, op. cit., pagg. 51 e ss..

4 Cfr. M. BINI, cit., pagg. 70 e ss..

5 Per un’ampia disamina del concetto di “valore di liquidazione” come parametro per la verifica della miglior soddisfazione dei creditori e in ottica distributiva, con interessanti riferimenti alle esperienze di altri Paesi, vedi A. TURCHI, Il valore di liquidazione nel Codice della crisi e dell’insolvenza, in “Diritto della Crisi” 2024.

6 Come autorevolmente affermato, il principio della vendita unitaria dell’azienda rispetto alla vendita atomistica è solo tendenziale in quanto “non può mai risolversi in un pregiudizio per i creditori” (G. D’ATTORRE, I principi unificanti nei trasferimenti di valore nelle diverse soluzioni della crisi, in “Diritto della Crisi” 2025).

7 La Relazione illustrativa ministeriale di accompagnamento allo schema del Decreto Legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 precisa che “la regola di distribuzione contenuta nel comma 6 dell’articolo 84 detta due principi distinti da osservare nella ripartizione dell’attivo concordatario e che dipendono dalla natura delle risorse distribuite. Essa prevede, in particolare, che il valore di liquidazione dell’impresa sia distribuito nel pieno rispetto delle cause legittime di prelazione e cioè secondo la regola della priorità assoluta (che impedisce la soddisfazione del creditore di rango inferiore se non vi è stata la piena soddisfazione del credito di grado superiore) mentre il valore ricavato dalla prosecuzione dell’impresa, il c.d. plusvalore da continuità, può essere distribuito osservando il criterio della priorità relativa (secondo il quale è sufficiente che i crediti di una classe siano pagati in ugual misura rispetto alle classi di pari grado e in misura maggiore rispetto alla classe di rango inferiore)”.

8 Per un’analisi organica e sistematica dei profili giuridici coinvolti sul tema della APR e della RPR, con puntuali riferimenti comparatistici ai sistemi statunitense ed europeo, si rinvia a G. BALLERINI, Le riorganizzazioni societarie tra ABSOLUTE e PRIORITY rule, Giappichelli 2024. Sull’ipotesi liquidatoria come parametro di riferimento e unica alternativa di confronto percorribile - anche ai fini dell’applicazione delle regole della Absolute Priority Rule (APR) e della Relative Priority Rule (RPR) e per un’ampia analisi comparatistica, sia normativa che di prassi, con riferimento alle esperienze statunitensi ed europee, nonché ad alcuni casi pratici significativi si veda A. TURCHI, Il valore di liquidazione nel Codice della crisi e dell’insolvenza, cit..

9 Si veda, in ambito statunitense, il Consulting Services Practice Aid 02-1: Business Valuation in Bankruptcy: A Nonauthoritative Guide, pubblicato dall’American Institute of Certified Public Accountants (AICPA), che fornisce linee guida operative per la valutazione d’impresa nell’ambito di procedure fallimentari, con particolare attenzione ai concetti di reorganization value, going concern e fresh start accounting.

10 Per una riflessione sul ruolo dei soci nel Codice della Crisi cfr.: P. RIVA, Il complesso ruolo dei soci nella gestione della crisi d’impresa, in “Diritto della Crisi” 2024; A. ROSSI, soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in “Ristrutturazioni Aziendali” 2022.

11 L.A. BOTTAI - A. PEZZANO - M. RATTI - M. SPADARO, Il concordato con attribuzione ai soci: criticità e prospettive del nuovo art. 120 quater CCII, in “Diritto della Crisi” 2022; A. GUIOTTO, Il valore riservato ai soci nel concordato in continuità aziendale, in “Diritto della Crisi” 2023.

12 L’art. 120 quater, primo comma, così recita: “Fermo quanto previsto dall’articolo 112, se il piano prevede che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda, il concordato, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.”

13 Nel quadro di una esplorazione dottrinale della norma prima del “Correttivo ter” di settembre 2024 cfr. N. CADEI, Il valore riservato ai soci ex art. 120 quater CCII: brevi riflessioni de iure condito sulla possibile quantificazione, in “Ristrutturazioni Aziendali” 13 giugno 2024.