Premessa
Nel panorama economico attuale, la condotta aziendale sostenibile sta passando rapidamente da “optional” a vera e propria leva strategica che le aziende devono utilizzare per rimanere competitive. Non si tratta solo di conformarsi a obblighi normativi e regolamentari sempre più stringenti – come la CSRD e gli ESRS –, ma di cogliere un’opportunità concreta. Tale metamorfosi e alimentata anche dall’evoluzione del comportamento di consumatori, investitori e istituzioni, che premiano le imprese trasparenti, responsabili e impegnate sul fronte ambientale e sociale. In tal senso, le PMI italiane vivono un momento cruciale: sono chiamate non solo ad adeguarsi alle normative, ma a reinventarsi, sfruttando la sostenibilità come motore di crescita e di innovazione, ma anche opportunità per l’apertura verso nuovi mercati, attrazione di talenti e di investimenti. Senza considerare che essa e ed e stata per un certo numero di imprese anche fattore di resilienza e ha spinto le aziende – PMI incluse – a integrare criteri ESG nella propria missione e nei modelli di business per anticipare i cambiamenti e non solo reagire a pressioni esterne.
Per comprendere come le PMI italiane stiano affrontando questa sfida, ACB ha condotto nel 2025 una survey nazionale, i cui risultati saranno commentati qui di seguito, su un campione rappresentativo di aziende profilate, in via principale, per dimensione, area geografica e settore di riferimento.
L’indagine è stata concepita con una duplice finalità: raccogliere dati quantitativi sulle pratiche già adottate – piani, strumenti, policy, governance, gestione dei rischi, rapporto con la finanza e comunicazione – e ottenere, al contempo, indicazioni qualitative su percezioni, motivazioni e criticità vissute dagli imprenditori. È stato cosi possibile delineare un quadro realistico delle diverse modalità con cui le imprese si stanno confrontando con la transizione sostenibile.
Dall’analisi condotta emerge un crescente interesse per i temi ESG, accompagnato tuttavia da una limitata disponibilità di strumenti strutturati, dalla presenza di gap di competenze e da ostacoli organizzativi e culturali. Molte imprese vedono infatti nella sostenibilità un’opportunità di crescita e di rafforzamento competitivo, ma faticano a trasformare tale consapevolezza in policy e responsabilità formalizzate.
Per dare ordine a queste evidenze, il capitolo e stato articolato in sezioni tematiche che riprendono le principali aree oggetto della survey: governance della sostenibilità, analisi e gestione dei rischi ESG, rapporto banca-impresa e finanza sostenibile, esternalità positive e competitività, fino ad affrontare il tema della reputazione e del rischio di greenwashing.
In ciascun paragrafo, i dati quantitativi sono supportati da riflessioni di sistema, con l’obiettivo di offrire ai lettori – imprenditori, professionisti e operatori del settore – una chiave di lettura chiara e utile a comprendere lo stato attuale e i passi ancora necessari perché la sostenibilità diventi una autentica leva strategica di crescita.
1. Governance della sostenibilità: un approccio olistico
1.1 L’approccio olistico alla governance come motore della sostenibilità
Quando si indica la sostenibilità come leva strategica, il primo terreno su cui misurarsi e la governance. E infatti dal governo societario che discendono le scelte di lungo periodo, la definizione degli obiettivi e la capacita di tradurli in azione quotidiana. Non si tratta più soltanto di adempiere a vincoli normativi, ma di ridefinire il ruolo stesso della governance in chiave ESG, adottando un approccio olistico nel quale il tema della sostenibilità non sia più gestito in modo isolato o sporadico, ma permei ogni livello e funzione dell’impresa, traducendosi in strumenti adeguati per monitorare i progressi e in una logica di processo che coinvolga l’intera organizzazione. Questo approccio richiede che la sostenibilità, ben oltre l’essere uno slogan, diventi quindi parte integrante della strategia e della cultura aziendale, creando valore durevole e condiviso nel tempo. L’impresa cioè deve configurarsi come un ecosistema integrato: la catena del valore, le funzioni operative e i sistemi di controllo lavorano in sinergia verso obiettivi fissati al vertice.
Per molte imprese ciò implica evolvere il modello di governo: formare gli amministratori sui temi ESG, istituire comitati o deleghe specifiche, inserire amministratori indipendenti con nuove competenze, trasformare il passaggio generazionale in occasione di rinnovamento.
Nel contesto europeo, l’importanza sistemica della governance per la sostenibilità e sottolineata dalle stesse nuove normative. La Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e i relativi European Sustainability Reporting Standards (ESRS) richiedono livelli crescenti di trasparenza e rendicontazione ESG alle aziende, con effetti a cascata anche sulle PMI attraverso le spinte derivanti da filiere e mercati finanziari. Anche questo concorre a elevare le aspettative in termini di “buon governo”: si premiano organizzazioni trasparenti, etiche e orientate al lungo termine.
Nelle PMI italiane, soprattutto quelle a conduzione familiare, questo passaggio e particolarmente delicato; per molte la governance sostenibile implica una trasformazione profonda del modello organizzativo, e la sfida non e tanto separare proprietà e controllo (dato che il fondatore o la famiglia coincidono spesso con il gestore), quanto garantire trasparenza nei processi decisionali e apertura al confronto.
Elementi come la frequenza delle riunioni del Consiglio di Amministrazione (CdA), la presenza di amministratori indipendenti o di sistemi di controllo formalizzati segnalano un assetto equilibrato e orientato alla compliance e costituiscono indici di affidabilità e capacità di visione di lungo periodo.
In sintesi, solo un approccio olistico consente di trasformare la sostenibilità in leva di competitività su più piani: reputazionale, finanziario, organizzativo e sociale.
E non si tratta solo di migliorare l’immagine aziendale, ma di potenziare la propria capacita di attrarre talenti, innovare prodotti e processi, dialogare con gli stakeholder, consolidare la filiera, farsi apprezzare dagli investitori.
1.2 Le evidenze della survey
I dati raccolti dalla survey nazionale condotta da ACB offrono una fotografia utile a valutare il grado di consapevolezza delle imprese italiane in tema di governance sostenibile, gli strumenti già adottati, le figure responsabili definite, i percorsi formativi intrapresi e gli ostacoli percepiti. I segnali di crescente interesse sono incoraggianti, ma si evidenziano anche lacune strutturali e culturali che frenano un’evoluzione più matura verso una governance sostenibile. Di seguito, i temi più rilevanti emersi dall’indagine.
– Consapevolezza e responsabilità
Quanto emerso in risposta alla domanda “La sostenibilità come parte integrante delle finalità imprenditoriali: la sua impresa ha formalizzato la sostenibilità nella propria missione o visione aziendale?” evidenzia le lacune evidenti nelle pratiche quotidiane delle aziende.
Solo il 38% delle aziende ha formalmente integrato la sostenibilità nella propria missione o visione aziendali. La maggioranza, invece, non ha affrontato questi temi, oppure lo ha fatto soltanto occasionalmente o mai. Il dato evidenzia quello che è un punto critico per molte aziende: la sostenibilità non è ancora parte integrante della cultura aziendale quotidiana e rimane confinata a dichiarazioni di principio o a iniziative isolate. In primis nelle PMI, dove la sostenibilità rischia di rimanere una tematica marginale, non in grado di influenzare davvero la strategia aziendale.
– Strumenti di governance e compliance
Alla domanda “Esistono documenti o strumenti formali a supporto della governance ESG?”, i risultati della survey evidenziano un dato cruciale: molte imprese si sono dotate solo di strumenti di base come il Codice etico, le certificazioni ambientali o il Modello organizzativo 231 per la compliance, ma solo una minoranza ha adottato strumenti più evoluti e strutturati, come piani di sostenibilità integrati e indicatori delle relative performance (KPI).
Appare evidente come molte imprese si limitino a implementare alcune misure iniziali, senza completare il processo di formalizzazione della sostenibilità, compromettendo cosi l’efficacia delle stesse azioni intraprese. La percentuale relativamente bassa di imprese con un piano di sostenibilità formale evidenzia la necessita di interventi mirati per colmare le lacune e orientare le PMI verso un modello di governance sostenibile più completo e incisivo, con un inquadramento sistematico del tema. Le PMI dovrebbero partire da un pacchetto minimo di strumenti (Codice etico, politiche ambientali e sociali, Modello 231 aggiornato) e progredire verso la creazione di un piano di sostenibilità integrato, con indicatori di performance (KPI) per monitorare i risultati e compararli nella loro evoluzione, nonchè tracciare un percorso di crescita sostenibile.
– Integrazione nei processi decisionali
Alla luce di quanto sopra non sorprende, quindi, che la frequenza con la quale i temi ESG approdano in sede decisionale figuri ancora piuttosto bassa: alla domanda “Con quale frequenza i temi ESG sono discussi in sede decisionale (es. cda, direzione)?”, appena il 16% delle aziende discute regolarmente di sostenibilità in CdA o in direzione, il 50% di esse lo fa solo occasionalmente e un restante 34% raramente o mai. In altre parole, oltre 8 aziende su 10 non integrano stabilmente le questioni ESG nelle riunioni di vertice, evidenziando un coinvolgimento del CdA ancora limitato. La creazione di comitati ESG multidisciplinari potrebbe senz’altro stimolare un approccio più sistematico e completo nella gestione dei temi sostenibili.
– Responsabilità e ruoli ESG
Tale criticità si riflette anche nell’assenza di figure dedicate. Alla domanda “Chi è responsabile della gestione delle tematiche ESG nella sua impresa?”, infatti, solo il 26% delle imprese ha nominato un responsabile ESG (interno o esterno), a fronte di circa il 50% che affida tali tematiche in modo diffuso al management senza un referente preciso, e di un preoccupante 24% che non assegna alcuna responsabilità specifica. In molte aziende la responsabilità ESG e spesso dispersa o inesistente, e la sostenibilità a livello di governance non e ancora inserita nei ruoli e processi chiave.
– Ostacoli alla sostenibilità
Le evidenze raccolte in risposta alla domanda “Quali sono oggi i principali ostacoli a un approccio più evoluto alla sostenibilità?” suggeriscono anche un problema legato alla carenza di competenze interne sul tema e la resistenza culturale al cambiamento. Su una scala da 1 (“irrilevante”) a 5 (“fondamentale”), oltre il 60% delle aziende valuta la mancanza di competenze come un ostacolo molto serio (punteggio 4 o 5), mentre più della meta riconosce limiti culturali interni (“mentalità poco aperta, scarsa sensibilità diffusa”) come blocco al percorso ESG. Anche la complessità normativa emerge chiaramente: circa il 73% delle aziende considera la continua evoluzione di norme e adempimenti un freno significativo, spesso difficile da gestire senza supporto esterno.
Appare chiara, ancora, la difficolta nella raccolta dei dati ESG (indicatori ambientali, sociali, ecc.): il 70% circa delle imprese rivela problemi nel misurare e monitorare le proprie performance di sostenibilità, indicativo di sistemi informativi non ancora adeguati.
Infine, non sorprende trovare tra i primi ostacoli segnalati i costi delle iniziative sostenibili, percepiti come elevati: investimenti in tecnologie pulite, certificazioni, consulenze e formazione sono visti da molte aziende come oneri che si fatica a sostenere nel breve periodo. Ciò si collega a un tema di visione strategica: finché la sostenibilità e percepita come costo e non come investimento, sarà difficile liberarne il potenziale di creazione di valore e trasformarla in “cultura diffusa” all’interno dell’organizzazione.
1.3 Proposte per migliorare la governance ESG nelle PMI
• Investire nella transizione digitale e fondamentale per raccogliere, monitorare e analizzare i dati ESG in modo efficace e tempestivo, comparandone le performance nella loro evoluzione e allineandole agli obiettivi strategici aziendali.
• Formare il management e creare comitati ESG che rappresentino tutte le funzioni aziendali, cosi da fare della sostenibilità un valore strategico condiviso che coinvolge ogni livello dell’impresa. Le PMI devono investire nella formazione continua del management e dei membri del CdA sui temi ESG, non solo per colmare il gap di competenze, ma per rafforzare la capacita di prendere decisioni strategiche in ottica di sostenibilità.
• Integrare amministratori indipendenti con competenze ESG, a rafforzamento della governance; queste figure esterne, prive di legami con la proprietà, possono portare prospettive nuove e stimolare la trasparenza e l’integrazione della sostenibilità nella visione a lungo termine dell’impresa, fattori fondamentali anche per la gestione dei rischi ESG.
• Adottare strumenti di compliance e reporting: le PMI devono rafforzare gli strumenti di compliance ESG già esistenti, come il Modello 231 e i Codici etici, aggiornandoli per includere rischi ambientali e sociali. Inoltre, la rendicontazione periodica dei risultati ESG tramite brevi report aiuta a monitorare i progressi e a garantire la trasparenza nelle comunicazioni esterne. Questo non solo accresce la credibilità dell’impresa, ma migliora anche la sua capacita di attrarre investimenti e talenti e rafforza la sua reputazione presso i consumatori e i diversi stakeholder.
• Creare una governance inclusiva e rappresentativa, coinvolgendo rappresentanti delle diverse funzioni aziendali, dall’area finanziaria alla produzione, dal marketing alla gestione dei rischi. La costituzione di comitati interfunzionali ESG garantisce che le decisioni siano allineate con la visione sostenibile dell’impresa e che la sostenibilità venga trattata in modo trasversale, senza rimanere appannaggio di un solo settore/area.
1.4 Considerazioni conclusive
La governance della sostenibilità e ancora in fase embrionale per molte PMI italiane, ma i segnali di cambiamento ci sono e sono promettenti. Le PMI che sapranno integrare criteri ESG nella loro governance aziendale saranno meglio posizionate per affrontare le sfide future, ridurre i rischi e cogliere nuove opportunità. La sostenibilità non è solo una questione di conformità, ma una leva strategica di crescita che, se ben gestita, diventa fonte di valore durevole per l’impresa e la società.
2. Analisi e gestione dei rischi ESG
2.1 La gestione dei rischi ESG: un imperativo strategico per il futuro delle imprese
I rischi ESG rappresentano, oggi, un tema cruciale nel dibattito pubblico e accademico, nel quadro normativo e di vigilanza, nelle valutazioni di investitori e finanziatori e nelle prassi operative delle imprese. Non si tratta di un semplice “trend” regolatorio o reputazionale, ma di fattori concreti che incidono in profondità sulla continuità aziendale, sulla competitività e, quindi, sulla salvaguardia dell’impresa nel futuro.
Le imprese si trovano a dover identificare, pesare e gestire rischi che non sono affatto nuovi ma che, nel panorama attuale, sulla spinta anche dalle nuove più stringenti norme, hanno assunto una dimensione di assoluta rilevanza: eventi climatici estremi, tensioni sociali, carenze di governance interna possono tradursi in impatti non solo nell’operatività aziendale, ma anche in conseguenze, a volte le più insidiose, quali quelle reputazionali. In questa prospettiva, la gestione dei rischi ESG non può essere affrontata in maniera intermittente, bensì richiede pragmatismo manageriale, capacita di analisi e visione strategica: e da questo equilibrio che dipendono oggi la resilienza delle imprese e la loro capacita di creare valore nel tempo.
I rischi ESG, recentemente ben inquadrati dall’EBA (European Bank Authority) nel documento Guidelines on the management of environmental, social and governance (ESG) risks dell’8 gennaio 2025, comprendono, in linea generale, sul piano ambientale, i rischi fisici derivanti dal cambiamento climatico e dal degrado ambientale, nonchè i rischi di transizione legati all’adeguamento a normative sempre più stringenti e a mutamenti tecnologici e di mercato; sul piano sociale, i rischi connessi alla gestione del capitale umano, alle condizioni di lavoro lungo la catena del valore, al rispetto dei diritti fondamentali e alla relazione con le comunità locali; sul piano della governance, i rischi legati a pratiche corruttive, conflitti di interesse, inadeguati sistemi di controllo interno o carenze di trasparenza nelle informazioni fornite al mercato.
Ne discende che l’emersione dei rischi ESG impone all’impresa di dotarsi di una governance robusta in grado di integrare la loro identificazione, valutazione e gestione: da un lato, occorre analizzarne gli impatti diretti, come, ad esempio, le potenziali interruzioni nelle catene di fornitura, l’adeguamento a normative ambientali sempre più stringenti o l’esposizione a controversie di natura sociale e giuslavoristica; dall’altro, e necessario considerare gli impatti indiretti che riguardano la perdita di reputazione, la riduzione dell’accesso al credito e agli investimenti, nonchè l’erosione della fiducia da parte di consumatori e investitori fino al cambiamento dei gusti e delle preferenze dei clienti. In questo senso, i recenti casi di caporalato che hanno coinvolto grandi marchi del lusso mostrano con chiarezza come i rischi sociali e di governance possano rapidamente trasformarsi in fattori critici per la sostenibilità dell’impresa, minandone credibilità, immagine e rapporto con il mercato.
La recente evoluzione normativa europea, illustrata in precedenza, ha reso centrale, in questo quadro, il principio della doppia materialità (principio cardine della CSRD), che amplia l’orizzonte di analisi dei rischi: non solo i rischi ESG che incidono sulla performance economico-finanziaria dell’impresa (outside-in), ma anche quelli derivanti dall’impatto che l’impresa stessa genera sull’ambiente e sulla società (inside-out).
Ciò comporta un cambio di paradigma nella gestione dei rischi che non possono più essere affrontati unicamente in ottica difensiva, ma devono essere inseriti in una strategia di lungo periodo volta a creare valore sostenibile, integrando obiettivi economici, sociali e ambientali.
In questa prospettiva, la gestione consapevole dei rischi ESG non solo costituisce una condizione imprescindibile per preservare la continuità aziendale, ma rappresenta anche un fattore chiave di competitività: le imprese che sapranno anticipare e governare tali rischi saranno maggiormente in grado di attrarre capitali e competenze, consolidare la fiducia degli stakeholder e rafforzare la propria posizione sul mercato, trasformando una dimensione di vulnerabilità in una leva di crescita, innovazione e creazione di valore nel tempo; valore che non si esaurisce più nel tradizionale concetto di massimizzazione del profitto, oggi divenuto oramai un retaggio storico, ma che comprende anche la qualità del rapporto tra l’impresa e l’insieme dei fattori ambientali e sociali con cui essa interagisce. In tal senso, nelle operazioni societarie straordinarie, come fusioni e acquisizioni, e nella selezione di fornitori o partner commerciali, trova sempre più spazio la “Due diligence ESG”, processo fondamentale per identificare e gestire i rischi legati alla sostenibilità ambientale, sociale e alla governance aziendale, che assume pari dignità rispetto alla “tradizionale” Due Diligence contabile-fiscale.
2.2 Le evidenze della survey
La survey condotta da ACB su un campione di aziende italiane offre un quadro chiaro di questa evoluzione: le imprese hanno iniziato a percepire l’importanza dei rischi ESG, ma la loro gestione si trova ancora in una fase di transizione, caratterizzata da una prevalenza di approcci informali e dalla necessita di una maggiore strutturazione metodologica.
L’analisi che segue intreccia i risultati dell’indagine con alcune riflessioni di carattere applicativo, con l’obiettivo di mettere in evidenza l’attuale posizionamento delle aziende italiane e i gap da colmare per salvaguardarne la continuità e rafforzarne la resilienza nel medio-lungo periodo.
– Intercettare i rischi per governarli
Oltre l’80% del campione indagato non e ancora pronto. In risposta alla domanda se l’impresa abbia identificato i rischi legati alla mancanza di un approccio sostenibile, la fotografia e eloquente: prevalgono l’assenza (41%) o la parzialità dell’identificazione (41%), mentre solo una quota ridotta del campione (18%) ha gia tradotto il riconoscimento dei rischi in azioni correttive. Il dato evidenzia la carenza, già a monte, di un adeguato approccio metodologico, con effetti a cascata sull’intero processo di risk management. Il risk assessment rappresenta, infatti, la fase preliminare e imprescindibile: senza un’accurata identificazione, mappatura e valutazione dei rischi in termini di gravita e probabilità non e possibile costruire matrici affidabili, ne definire priorità di intervento. Solo un’analisi sistematica consente di distinguere i rischi materiali da quelli marginali e di orientare risorse e strategie verso le aree a maggiore esposizione, evitando che la gestione resti confinata a valutazioni episodiche e intuitive.
– Mappatura dei rischi ESG fra consapevolezza diffusa e governance carente
L’interrogativo sulla mappatura dei rischi ESG conferma con immediatezza il punto di (non) maturità del sistema. Sul campione esaminato, colpisce, appunto, a massa critica di imprese prive di una mappatura effettiva dei rischi ESG: il 50% dichiara di identificarli solo in modo informale e il 34,2% non ha ancora avviato alcuna attività sistematica. In altri termini, oltre 4 imprese su 5 operano senza un impianto strutturato; solo il 15,8% ha adottato strumenti formalizzati (ad esempio matrici di rischio ESG). L’ equilibrio e fragile: al 15,8% di imprese con presidi strutturati si contrappone una larga maggioranza carente di un impianto di Enterprise Risk Management. Ne derivano, giocoforza, misurazioni intermittenti e scelte di spesa dettate dall’urgenza più che da una pianificazione del rischio.
– Percezione delle priorità: dimensioni ambientale e sociale in primo piano
Quando si chiede alle imprese quali siano i rischi più rilevanti, l’esito e netto.
Indicano i rischi ambientali nel 53,9% dei casi e quelli sociali nel 51,3%; molto più contenuto, pari al 18%, e il peso attribuito ai rischi di governance, mentre una quota residuale (15%) non individua criticità nelle categorie proposte (1).
Il quadro che ne deriva e coerente con la fase storica: la transizione ambientale, l’efficienza energetica, la sfida delle materie prime, la gestione delle emissioni, degli scarti e degli eventi climatici estremi occupano lo spazio centrale delle priorità; immediatamente dietro si collocano i profili sociali, che riguardano organizzazione del lavoro, salute e sicurezza in azienda e lungo la catena del valore, relazioni con clienti e comunità, diversità e inclusione.
I rischi organizzativi, spesso sottovalutati, riguardano la perdita di competenze chiave, la difficolta di trattenere i talenti e la carenza di know-how interno. L’uscita di figure strategiche o la scarsa retention in un mercato del lavoro competitivo possono compromettere continuità e attrattività aziendale, mentre la mancanza di competenze interne limita la capacita di innovare e adattarsi alle normative ESG, aumentando la dipendenza da consulenti esterni.
La governance, pur meno “percepita”, assicura continuità ai presidi ESG; senza di essa, politiche e impegni rischiano di restare inefficaci o percepiti come greenwashing.
– Gestione operativa dei rischi: dal reattivo al sistemico
La domanda sulla gestione concreta dei rischi restituisce uno spartiacque. Il 38,5% del campione dichiara di adottare strumenti dedicati (audit periodici, piani di mitigazione, procedure formalizzate) mentre il restante 61,5% si colloca in un’area non sistemica (interventi occasionali o assenza di presidi). Si tratta di una distribuzione che conferma quanto già sopra constatato, ovvero il passaggio, ancora in corso, dalla reazione “spot” all’evento alla programmazione sistemica.
Le implicazioni per la continuità aziendale sono evidenti: la mancanza di presidi strutturati espone a rischi di non conformità, a possibili interruzioni operative lungo la catena del valore, a un incremento strutturale dei costi (energia, coperture assicurative, approvvigionamenti, costo del capitale), oltre che a vulnerabilità reputazionali. L’integrazione dei rischi ESG nella strategia aziendale e nell’assetto dei controlli interni richiede, in termini pratici, una policy dedicata, l’esplicitazione della propensione al rischio, l’individuazione di indicatori chiave di rischio, l’assegnazione di responsabilità e la calendarizzazione di riesami periodici in seno agli organi di governo, cosi da integrare strutturalmente i rischi ESG nel governo d’impresa.
– Reputazione e continuità: un nesso stretto e attuale
La centralità del profilo reputazionale, che costituisce un tratto tipico dei rischi ESG, e confermata dalla domanda sull’importanza della reputazione ambientale/sociale dell’impresa agli occhi degli stakeholder. Se il 44,7% qualifica la reputazione ambientale e sociale come “abbastanza importante”, il 26,3% la considera “molto” importante e il 15,8% “fondamentale”; soltanto il 13,2% la ritiene “poco o per nulla importante”. In altri termini, quasi 9 imprese su 10 attribuiscono al tema un rilievo almeno medio-alto.
L’impatto sulla continuità e immediato: una crisi reputazionale può erodere la fiducia del mercato, irrigidire la posizione dei finanziatori, compromettere la capacita di attrarre e trattenere competenze, oltre a imporre il pagamento di ingenti sanzioni risarcimenti, nonchè accrescere i costi di conformità e di copertura dei rischi. Da qui la necessita di un presidio che non si esaurisca nella comunicazione, ma si fondi sulla coerenza dei comportamenti, sulla verificabilità dei dati diffusi e su meccanismi di monitoraggio e risposta tempestiva, anche per prevenire o contrastare accuse di green/social washing.
2.3 Considerazioni conclusive
L’insieme degli esiti della survey restituisce la fotografia di un percorso in atto ma non ancora compiuto, coerente con la caratteristica morfologica del nostro tessuto imprenditoriale, largamente incentrato su PMI. La percezione dei rischi ESG, infatti, appare diffusa ma si concentra soprattutto sulle dimensioni ambientale e sociale; la governance e meno avvertita come area di rischio quando, invece, la stessa rappresenta un prerequisito essenziale perchè gli impegni assunti diventino pratiche efficaci e durevoli.
La lettura incrociata delle evidenze della survey, dall’identificazione dei rischi alla mappatura, dalla priorità dei rischi alla gestione operativa, fino ai riflessi reputazionali, evidenzia una carenza di maturità iniziale che compromette l’intera catena di gestione del rischio:
• se l’identificazione e assente o incompleta, la mappatura rimane informale;
• se la mappatura non si fonda su un framework strutturato, la gestione risulta intermittente.
In tale contesto, l’impatto sulla reputazione non può essere colto ne valorizzatoappieno, con il rischio di tradursi in un indebolimento della credibilità aziendale. Nulla di sorprendente. Le nostre PMI sono notoriamente ancora destrutturate e al loro interno prevale l’intuito del “saggio” imprenditore che detta le scelte operative del day-by-day, spesso senza una visione strategica di lungo periodo.
Il complesso contesto macroeconomico di oggi, tuttavia, impone alle imprese, a prescindere dalla loro dimensione, di diffondere a tutti i livelli dell’organizzazione una cultura della gestione dei rischi, anche di quelli ESG, dotandosi di una robusta governance, con adeguate competenze, atta a garantire adeguati processi di risk management. E la condizione per disporre di piani credibili, fondati su informazioni e dati accurati e tracciabili, nonchè per dialogare con gli stakeholder su basi informative solide.
La gestione dei rischi, anche di quelli ESG, sta alla base della continuità d’impresa; in questa prospettiva, la sostenibilità smette di essere percepita come il “fiore all’occhiello” delle grandi aziende. La sostenibilità non è altro che la gestione concreta, a prescindere dalla dimensione aziendale, dell’insieme dei rischi ambientali, sociali e di governance; rischi che, da possibili fonti di vulnerabilità, possono trasformarsi in leva di competitività e in valore durevole per l’impresa nel medio e lungo periodo.
3. Il rapporto banca-impresa: la finanza a supporto delle strategiedi sostenibilità
3.1 Le strategie di sostenibilità e i correlati fabbisogni finanziari: il ruolo della banca e dei mercati
La transizione verso modelli di business sostenibili per le imprese non rappresenta più una semplice scelta etica, ma una leva strategica fondamentale per garantire competitività e resilienza nel lungo periodo. Tale trasformazione richiede tuttavia un approfondimento delle dinamiche finanziarie aziendali e dell’impatto su fabbisogni e coperture.
Le strategie di sostenibilità si articolano attraverso molteplici dimensioni operative che possono richiedere risorse finanziarie dedicate. In primo luogo, la riconversione dei processi produttivi verso tecnologie a basso impatto ambientale comporta spesso investimenti anche significativi in asset materiali e immateriali: dall’efficientamento energetico degli impianti alla digitalizzazione dei processi, dalla circular economy all’adozione di fonti rinnovabili. Inoltre, l’integrazione dei criteri ESG nella catena del valore può generare fabbisogni finanziari legati alla riqualificazione dei fornitori, all’implementazione di sistemi di tracciabilità e certificazione, nonchè alla formazione del capitale umano. Tali investimenti, caratterizzati da orizzonti temporali estesi e ritorni economici differiti, pur se significativamente positivi, necessitano di strumenti finanziari “pazienti”, capaci di sostenere la redditività di lungo termine rispetto ai rendimenti immediati.
Un ulteriore elemento di complessità emerge dalla necessita di finanziare l’innovazione di processo e/o prodotto secondo nuovi criteri compatibili ai principi di sostenibilità, con ciò richiedendo risorse dedicate alla ricerca e sviluppo. L’innovazione green può presentare infatti caratteristiche peculiari: incertezza tecnologica, spillover positivi non facilmente appropriabili, tempi di sviluppo prolungati. Tali specificità richiedono strumenti finanziari ibridi, capaci di combinare capitale di debito e capitale di rischio, supporto pubblico e investimento privato, in una logica di blended finance che mitiga il rischio e catalizza l’innovazione.
In un sistema come quello italiano caratterizzato dalla prevalenza delle banche quale fornitore di capitale il ruolo che esse assumono per finanziare investimenti in sostenibilità e essenziale. Le banche sono infatti efficaci nel fornire risorse esterne ad attività innovative che richiedano un finanziamento graduale perché possono impegnarsi in modo credibile a rendere disponibili finanziamenti aggiuntivi man mano che il progetto si sviluppa.
Le banche stanno evolvendo da semplici fornitori di credito a partner strategici della transizione sostenibile, sviluppando strumenti finanziari specifici per supportare gli investimenti ESG: dai Green bonds ai finanziamenti legati alla sostenibilità con tassi collegati al raggiungimento di obiettivi ESG (Sustainability-Linked Loans), dai social bonds agli strumenti per supportare il percorso di decarbonizzazione (Transition Finance) includendo, non ultimi, i servizi di consulenza ESG per guidare le imprese nella definizione delle strategie. Particolare rilevanza assumono i prestiti legati a KPI di sostenibilità, che subordinano le condizioni economiche del finanziamento al raggiungimento di specifici target ESG, creando un meccanismo incentivante che allinea gli interessi di banca e impresa verso obiettivi comuni di sostenibilità. Inoltre, le banche stanno integrando i fattori ESG nei processi di valutazione del credito, riconoscendo che le aziende con solide pratiche di sostenibilità presentano profili di rischio migliori e maggiore resilienza a lungo termine.
Anche i mercati dei capitali, dal canto loro, manifestano una crescente attenzione verso le performance ESG delle imprese, come dimostrato dall’espansione del mercato dei green bonds e dalla proliferazione di fondi di investimento sostenibili e responsabili, canalizzando cosi crescenti flussi di investimento verso aziende con pratiche ESG solide. L’integrazione dei criteri ESG nelle strategie di investimento istituzionale genera un effetto disciplinante sul mercato, premiando le imprese virtuose con un minor costo del capitale e penalizzando quelle con performance ESG inadeguate attraverso meccanismi di repricing del rischio.
Tuttavia, permangono ancora criticità significative nel rapporto tra sistema finanziario e imprese, particolarmente accentuate per le PMI. L’asimmetria informativa sui temi ESG, la complessità degli adempimenti documentali, i costi di compliance e certificazione rappresentano barriere all’accesso al credito sostenibile che rischiano di generare divisione tra grandi imprese e PMI. La sfida per il sistema bancario consiste nello sviluppare modelli di servizio scalabili e accessibili, che democratizzino l’accesso alla finanza sostenibile preservando al contempo il rigore valutativo e la gestione del rischio.
Dal canto loro, le imprese che sostengano investimenti e costi non trascurabili per migliorare la sostenibilità dovranno fornire adeguata e credibile informativa, anche ove non abbiano ancora adottato una rendicontazione secondo gli standard ESRS, per evitare di subire impatti negativi sul rating per costi sostenuti che non abbiano ancora generato ritorni adeguati e per cogliere nuove opportunità di accesso al credito a condizioni vantaggiose per chi presenta profili di sostenibilità solidi.
3.2 Evoluzione della normativa sul rapporto banca-impresa ed evidenze della survey sulla percezione delle imprese
Il quadro normativo europeo ha subito una profonda trasformazione negli ultimi anni, ridefinendo sostanzialmente il rapporto tra sistema bancario e imprese sui temi della sostenibilità. Il Piano d’Azione per la Finanza Sostenibile della Commissione Europea, lanciato nel 2018, ha posto le basi per un’integrazione sistematica dei fattori ESG nel sistema finanziario. La Tassonomia europea delle attività sostenibili, entrata progressivamente in vigore dal 2022, fornisce un sistema di classificazione unificato per identificare quali attività economiche possano essere considerate ambientalmente sostenibili, creando un linguaggio comune tra imprese e istituzioni finanziarie. Il Regolamento sulla divulgazione delle informazioni sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (SFDR) impone agli operatori finanziari di dichiarare come integrano i rischi di sostenibilità nei loro processi decisionali di investimento, mentre la Direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (CSRD), come illustrato nel primo capitolo di questa parte, amplia significativamente il perimetro delle imprese soggette a obblighi di rendicontazione ESG, includendo progressivamente anche le PMI quotate.
In questo contesto evolutivo, assumono particolare rilevanza le nuove linee guida dell’Autorità Bancaria Europea (EBA) su concessione e monitoraggio dei prestiti, che rappresentano un punto di svolta fondamentale nel rapporto banca-impresa. Tali linee guida, che entreranno in vigore all’inizio del 2026 per le grandi banche e all’inizio del 2027 per gli istituti più piccoli e meno complessi, introducono l’obbligo per le banche di integrare i rischi ESG nei processi di valutazione del merito creditizio. L’impatto sulle banche sarà sostanziale: dovranno considerare i rischi ambientali, sociali e di governance come potenziali fattori di tutte le categorie tradizionali di rischio finanziario, inclusi il rischio di credito, operativo e reputazionale. Questo comporterà la necessita di sviluppare nuove metodologie di valutazione, formare il personale e adeguare i sistemi informativi per raccogliere e analizzare dati ESG. Per le imprese, questo si tradurrà nella necessita di fornire dati ESG dettagliati e aggiornati alle banche, con le PMI che dovranno
strutturarsi per rispondere a richieste informative sempre più articolate, rappresentando al contempo un’opportunità per distinguersi attraverso profili di sostenibilità solidi e ben documentati.
Strettamente collegato alle linee guida EBA e il Green Asset Ratio (GAR), un indicatore chiave introdotto dalla normativa europea che misura la quota di esposizioni delle banche verso attività economiche allineate alla Tassonomia europea rispetto al totale delle attività coperte. Le banche sono tenute a pubblicare questo indicatore, fornendo trasparenza sul loro impegno nel finanziamento di attività sostenibili. Il GAR influenza direttamente le strategie di allocazione del credito bancario, incentivando il finanziamento di progetti e imprese con solide credenziali ambientali e creando così un meccanismo di mercato che premia le imprese più virtuose dal punto di vista della sostenibilità.
A completare il quadro degli indicatori di sostenibilità bancaria, il Banking Book Taxonomy Alignment Ratio (BTAR) rappresenta l’evoluzione più recente del framework normativo, entrato ufficialmente in vigore il 1° gennaio 2025. Questo indicatore misura la percentuale di attività di una banca allineata alla Tassonomia Europea nel portafoglio bancario, fornendo insieme al GAR una visione completa dell’impegno degli istituti finanziari nella transizione verde. I fondamenti normativi del BTAR derivano dal Regolamento sulla Tassonomia (UE) 2020/852 e dai successivi atti delegati che definiscono i criteri tecnici di vaglio per determinare l’allineamento delle attività economiche. L’applicazione dal 2025 obbliga le banche ad analizzare in dettaglio il proprio portafoglio crediti, valutando l’allineamento alla Tassonomia di ogni singolo finanziamento e raccogliendo dati ESG dalle imprese, inclusi investimenti in immobilizzazioni e spese operative relativi a progetti sostenibili.
In questo scenario normativo in rapida evoluzione, l’analisi empirica condotta su un campione di PMI italiane rivela dinamiche significative nel rapporto banca-impresa sui temi ESG. Oltre la metà del campione (55%) dichiara di aver ricevuto richieste di informazioni ESG da parte di banche o investitori, con circa 1/3 che le riceve regolarmente e 1/4 solo in casi specifici. La probabilità di ricevere tali richieste cresce significativamente con la dimensione dell’impresa: mentre le microimprese (1-9 addetti) non riportano richieste, la percentuale sale al 46% per le piccole imprese (10-49 addetti) e al 75% per le medie imprese (50-249 addetti). Per quanto riguarda l’adozione di strumenti finanziari legati alla sostenibilità, solo il 10,5% delle imprese del campione ha già richiesto od ottenuto tali strumenti, mentre il 18,4% si dichiara in fase di informazione. Particolarmente rilevante e la percezione del valore dell’ESG nell’accesso al credito: i 2/3 degli intervistati ritengono che un buon profilo ESG possa potenzialmente migliorare l’accesso al credito o a fondi pubblici, con solo una minoranza che esprime scetticismo. Le piccole e medie imprese mostrano un atteggiamento particolarmente favorevole, con oltre il 90% che esprime un giudizio positivo o potenzialmente positivo, suggerendo una crescente consapevolezza dell’importanza strategica della sostenibilità nel dialogo con il sistema finanziario.
3.3 L’importanza della credibilità delle informazioni e della coerenza nel tempo tra comunicazione, azioni e risultati
La credibilità informativa costituisce il fondamento su cui si costruisce l’intero edificio della finanza sostenibile. In un panorama caratterizzato da crescente complessità e interdipendenza sistemica, la qualità, verificabilità e comparabilità delle informazioni ESG divengono condizioni imprescindibili per l’efficiente allocazione delle risorse finanziarie su progetti e imprese realmente sostenibili.
La sfida della credibilità informativa beneficerà anche dell’armonizzazione promossa dall’International Sustainability Standards Board (ISSB) e dalla CSRD europea verso la standardizzazione, pur se richiede alle imprese investimenti in sistemi informativi, competenze specialistiche e processi di assurance che garantiscano l’affidabilità del dato. L’impostazione adottata dall’EFRAG, soprattutto per i criteri di rendicontazione per le PMI non quotate (VSME), si pone l’obiettivo della c.d. fair presentation, indirizzando le imprese a individuare pochi temi, ma rilevanti ed entity specific. La rendicontazione di sostenibilità non è infatti una check list da compilare, ma un percorso da illustrare con individuazione dei temi attinenti alla specifica realtà aziendale.
La coerenza temporale tra dichiarazioni d’intenti, azioni implementate e risultati conseguiti emerge come elemento discriminante nella costruzione della reputazione sostenibile. Il fenomeno del greenwashing, di cui al par. 5, rappresenta un rischio particolarmente rilevante per le imprese di minori dimensioni, che potrebbero essere tentate da strategie di sostenibilità meramente dichiarative per accedere a finanziamenti agevolati o rispondere a pressioni della catena di fornitura, evidenziando il rischio reputazionale e finanziario derivante da strategie di sostenibilità meramente compilative o cosmetiche.
L’implementazione di sistemi di monitoraggio e rendicontazione continua, supportati da tecnologie digitali accessibili anche alle PMI, consente di tracciare le performance ESG riducendo il divario temporale tra azione e rendicontazione. Per le PMI italiane l’adozione di soluzioni digitali scalabili rappresenta un’opportunità per colmare il divario informativo con le grandi imprese, garantendo al contempo l’affidabilità dei dati forniti al sistema bancario.
La costruzione di track record credibili richiede alle PMI l’adozione di metriche proporzionate alla loro dimensione ma ancorate a parametri verificabili. Il principio di proporzionalità, centrale nella normativa europea, permette alle PMI di adottare approcci semplificati mantenendo pero il rigore metodologico necessario a garantire la credibilita delle informazioni.
Il ruolo degli intermediari informativi assume particolare importanza per le PMI italiane che spesso non dispongono delle risorse per gestire internamente la complessità della rendicontazione ESG e che possono essere validamente assistite dalla figura del dottore commercialista, che può svolgere una funzione cruciale nel supportarle nella produzione di informazioni affidabili e conformi agli standard europei.
3.4 Considerazioni conclusive
In conclusione, per le PMI italiane la credibilità informativa e la coerenza tra comunicazione e risultati non rappresentano solo requisiti normativi, ma leve strategiche per accedere a condizioni di finanziamento preferenziali nel nuovo contesto della finanza sostenibile europea. Le imprese che sapranno costruire percorsi di sostenibilità credibili e documentati, proporzionati alla propria dimensione ma rigorosi nella metodologia, e coerenti nel rapporto tra obiettivi e risultati, potranno trasformare gli obblighi informativi in opportunità competitive, rafforzando al contempo il rapporto fiduciario con il sistema bancario e contribuendo alla transizione sostenibile del tessuto produttivo nazionale.
4. Sostenibilità, competitività e valore d’impresa: le esternalità positive
4.1 Il rapporto sinergico tra sostenibilità e vantaggio competitivo: impatti ed esternalità, un quadro introduttivo
La crescente attenzione, da parte della società civile e degli organismi di governo nazionali e internazionali, verso gli impatti sociali e ambientali dell’attività d’impresa, i cambiamenti climatici, la presenza di consumatori più consapevoli e la pressione della pubblica opinione hanno posto le aziende di fronte a nuove sfide competitive. Le imprese riconoscono sempre più una responsabilità che va oltre il profitto, considerando gli impatti sociali e ambientali del proprio agire. Le organizzazioni possono contribuire allo sviluppo sostenibile tramite l’implementazione di strumenti atti a presidiare le dinamiche economiche e finanziarie, ambientali (E) e sociali (S), a condizione che la governance (G) aziendale inserisca tali preoccupazioni nella strategia d’impresa. Il Libro Verde del 2011 dell’allora Comunità Europea già definiva la CSR come: ≪ l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate ≫ (2).
Un’azienda attenta alla sostenibilità deve essere solida economicamente e finanziariamente, minimizzare gli impatti ambientali negativi, analizzare i rischi fisici e di transizione legati alle dinamiche ESG e agire conformemente alle aspettative sociali, riducendo gli impatti negativi e cogliendo le opportunità emergenti. Le prospettive economiche, sociali e ambientali dovrebbero essere integrate nella strategia e nella gestione aziendale (3).
È fondamentale per le imprese valutare attentamente le esternalità quali effetti – positivi o negativi – che l’attività produce sui soggetti esterni al perimetro aziendale, non sempre valorizzate nella rendicontazione economico-finanziaria tradizionale. Le esternalità positive assumono cosi un ruolo strategico: benefici non contabilizzati nei bilanci tradizionali, ma decisivi per la competitività di lungo periodo. Se le esternalità negative sono al centro del dibattito normativo (si pensi ai costi ambientali delle emissioni o al consumo di risorse naturali), quelle positive rappresentano un ambito meno esplorato sotto il profilo della valorizzazione strategica.
Innovazione tecnologica, riduzione degli impatti ambientali, creazione di occupazione qualificata, rafforzamento della coesione territoriale: sono tutti esempi di esternalità positive che generano valore condiviso. Un’azienda che riduce l’inquina mento, innova processi e prodotti, forma capitale umano qualificato e contribuisce alla coesione sociale genera benefici che vanno oltre i risultati di bilancio. Tali benefici – spesso invisibili o difficilmente monetizzabili – rafforzano la competitività sistemica, consolidando filiere, aumentando la resilienza dei distretti industriali, migliorando l’attrattività verso talenti e investitori.
Per le PMI italiane, spina dorsale del tessuto produttivo nazionale, l’attenzione alla sostenibilità non dovrebbe rappresentare un costo accessorio o mera adesione a vincolo normativo, bensì una leva di vantaggio competitivo per differenziarsi nei mercati globali, attrarre risorse, consolidare il legame con stakeholder, creare valore.
4.2 Le evidenze della survey
Le evidenze empiriche dalla survey forniscono spunti di riflessione sulle esternalità e gli impatti percepiti nell’implementazione di un percorso di gestione della sostenibilità, con percezioni variabili secondo la dimensione d’impresa.
• Percezione della sostenibilità quale driver di sviluppo, da costo a investimento.
• Maggior attenzione ai fattori abilitanti da parte delle PMI.
Oltre l’80% delle imprese ritiene che investire nella sostenibilità rappresenti un’opportunità di crescita. Il 41% risponde “Sì, senza dubbio”, mentre per il 48,7% “Dipende dal contesto e dalle risorse disponibili”. Solo il 10,3% la considera principalmente un obbligo. La sostenibilità è quindi percepita come leva di crescita, ma con attenzione pragmatica a condizioni e priorità operative.
L’ampia presenza di “Dipende da…” riflette la natura concreta delle scelte aziendali: l’opportunità passa per fattori abilitanti come risorse (budget, competenze), chiarezza sui ritorni (ROI e tempi di payback), pressione del mercato (clienti, supply
chain, finanza), stabilita normativa e disponibilità di dati per misurare i benefici. Le imprese medio-grandi vedono più chiaramente l’opportunità perchè dispongono di strutture dedicate e sono coinvolte in catene del valore che richiedono standard di sostenibilità. La forte quota di “Sì” nella fascia 50-100 milioni rispecchia una fase di crescita di imprese con massa critica per investire e vantaggio competitivo da costruire attraverso le pratiche ESG. La cautela nelle classi più piccole dipende da vincoli di cassa e percezione della sostenibilità come costo iniziale.
Gli esiti segnalano comunque un cambio culturale: la sostenibilità non e più percepita solo come un costo ma un driver di sviluppo, un investimento capace di generare ritorni economici e reputazionali. Prerequisito essenziale e l’esistenza di una cultura aziendale propensa al cambiamento e favorevole all’inserimento delle preoccupazioni ESG nella strategia e nei sistemi di gestione delle performance.
– Esternalità positive attese od osservate
Le aziende segnalano vari impatti positivi: miglioramento dell’immagine e reputazione, maggiore attrattività verso talenti, incremento dell’efficienza nei processi e apertura a nuovi mercati. Oltre meta delle imprese ha già osservato benefici concreti. Il beneficio maggiormente avvertito e il miglioramento dell’immagine aziendale: in media e valutato alto, con circa il 69% di Top‑2 (4). Emergono differenziazioni nella percezione tra PMI e grandi imprese. Le PMI (fatturato 10-100 milioni) percepiscono l’effetto più evidente su reputazione e accesso al credito; le grandi imprese (250+ dipendenti) percepiscono più benefici in termini di fidelizzazione di clienti e collaboratori. Per le PMI la sostenibilità rappresenta un fattore di differenziazione e credibilità, mentre le grandi, con brand consolidato, avvertono meno l’incremento reputazionale, ma un maggior valore nella fidelizzazione grazie a programmi ESG maturi.
L’accesso al credito e ai finanziamenti agevolati e percepito positivamente (media 3,2 e Top-2 al 51%), particolarmente nel segmento di fatturato 10-50 milioni.
L’accesso a nuovi mercati e la fidelizzazione dei clienti sono benefici avvertiti prevalentemente dalle grandi imprese, che dispongono di programmi di relationship e comunicazione ESG strutturati. È plausibile che in alcuni comparti la sostenibilità sia ormai un requisito di base per entrare in catene di fornitura o mercati regolati, mentre in altri contesti rimanga un fattore di qualificazione senza un ritorno commerciale immediato. Anche per la fidelizzazione dei collaboratori le grandi appaiono più convinte del beneficio. Le imprese medie e quelle nel segmento 10-50 milioni sono piu attente al beneficio connesso alla partecipazione a bandi e commesse pubbliche. Nei contesti dove i capitolati attribuiscono punteggi a criteri ambientali e sociali, una dotazione ESG ordinata e un portafoglio di certificazioni aggiornato facilitano la competizione.
– Sostenibilità quale leva competitiva: ottimismo cauto ma diffuso. Un gap da colmare nella misurazione del vantaggio competitivo
Quasi 8 imprese su 10 credono nei benefici della sostenibilità: solo il 12,8% vede già oggi risultati concreti misurabili; il 64,1% riconosce un potenziale positivo ma non riesce a quantificarlo; solo il 23,1% si dichiara scettico.
Le imprese percepiscono che la sostenibilità possa rappresentare un vantaggio competitivo ma faticano a tradurre questa intuizione in numeri concreti. Si tratta di un gap da colmare in termini di misurazione, che apre a un potenziale, ampio coinvolgimento dei professionisti nell’assistenza alle imprese, nella guida e nell’affiancamento necessari per implementare gli strumenti di rendicontazione.
Osservando in modo più approfondito i risultati alla luce delle dimensioni aziendali, lo scenario muta radicalmente. Le microimprese (1-9 dipendenti, fatturato fino a 2 milioni) mostrano scetticismo: 75% delle microimprese per dipendenti e 100% di quelle con fatturato minimo rispondono “No” alla domanda sulla sostenibilità quale leva competitiva, probabilmente per carenza di risorse e competenze. Diversa la percezione delle PMI (50-249 dipendenti, fatturato 10-50 milioni): l’81,2% riconosce benefici ma non riesce a misurarli; solo il 6,2% li vede tangibilmente. Sono imprese abbastanza grandi da aver investito in pratiche ESG e percepirne effetti positivi, ma non ancora strutturate per avere sistemi di controllo sofisticati che quantifichino questi benefici.
Il problema principale non e la mancanza di volontà o percezione del legame sostenibilità- vantaggio competitivo, quanto la mancanza di strumenti di misurazione adeguati. Le imprese che vogliono sfruttare il potenziale competitivo degli investimenti ESG devono implementare efficaci strumenti di pianificazione, controllo e misurazione delle performance.
– Il valore reputazionale, il principale beneficio osservato dalle pratiche ESG
Le risposte sui principali benefici delle pratiche ESG confermano il quadro sopra delineato: miglioramento della reputazione aziendale, accesso facilitato al credito, maggiore efficienza nella gestione dei costi e attrazione/fidelizzazione del capitale umano. Le esternalità positive rafforzano valore e resilienza.
L’ambito nel quale si osserva il beneficio più elevato e il Valore reputazionale con una media di 3.79 e quota Top-2 del 69.7%, rappresentando il canale più immediato attraverso cui le pratiche ESG producono valore, soprattutto per le imprese medie che possono differenziarsi efficacemente. Per le fasce di fatturato intermedie (10-50 milioni) emerge il beneficio concreto nell’accesso al credito. Per rendere più visibili gli effetti su innovazione e sviluppo commerciale risulterebbe utile collegare gli impegni ESG a KPI operativi e integrare i messaggi nella proposta commerciale.
4.3 Conclusioni e spunti di riflessione
Le imprese che implementano pratiche attente alla riduzione degli impatti ambientali e gestiscono le relazioni con i portatori di interesse migliorano la propria immagine, con incremento di fiducia nel loro operato. Si creano cosi potenziali di consenso e reputazione capaci di incidere positivamente su posizione competitiva e prosperità aziendale nel lungo periodo.
I risultati suggeriscono che non esiste strategia unica per promuovere la sostenibilità; servono approcci differenziati per dimensione aziendale. Le PMI avvertono maggiormente l’impatto su immagine e reputazione, percependo la sostenibilità come fattore di differenziazione per facilitare accesso al credito e partecipazione a bandi pubblici. Le grandi imprese percepiscono maggiori benefici nell’attrazione del capitale umano e fidelizzazione della clientela.
Ciò si traduce in differenti implicazioni pratiche e strategie operative nell’approccio alle tematiche ESG.
Per le microimprese: occorrono soluzioni “chiavi in mano” con ritorni immediati, incentivi per efficientamento energetico, riduzione sprechi, digitalizzazione, sgravi fiscali o contributivi, evidenze per dimostrare che sostenibilità può anche significare “spendere meno”.
Per le medie imprese: focus sui sistemi di misurazione e controllo: servono cruscotti, KPI e strumenti per trasformare le intuizioni in dati concreti, capaci di guidare la governance nei processi strategici. Chi non ha ancora adeguato questi ambiti rischia di restare indietro in modo irreversibile.
Per le grandi imprese: e necessario un approccio strategico integrato nel quale la sostenibilità, quale priorità ineludibile, diventa parte del modello di business. Chi non l’ha ancora adottato mette a rischio la sua stessa sopravvivenza nel medio-lungo termine.
L’adesione consapevole ai principi di sostenibilità, tramite un processo strategico formalizzato, consente di migliorare immagine e reputazione, sviluppando rapporti fiduciari con clientela, partnership con fornitori, collaborazione con personale. Ciò favorisce posizioni di vantaggio competitivo con conseguenze positive su redditività e creazione di valore nel lungo periodo. Finalità economiche si possono utilmente combinare con quelle sociali e ambientali per raggiungere un equilibrio durevole e uno sviluppo aziendale di lungo periodo.
La sfida per i professionisti sarà accompagnare le imprese nell’implementazione di un percorso strategico di adesione alla sostenibilità, facilitando l’adozione di strumenti che rendano visibile, tangibile e misurabile il valore delle esternalità positive, affinchè diventino parte integrante del capitale competitivo dell’impresa.
5. Sostenibilità e rischio reputazionale: tra tutela del consumatore e lotta al greenwashing
Nel 2024 il dialogo di supervisione fra Banca d’Italia e le banche meno significative (“LSI”) sui rischi climatici e ambientali si è focalizzato sul monitoraggio dell’attuazione dei piani di azione 2023-2025 per l’allineamento alle Aspettative di Vigilanza, con approfondimenti condotti anche in sede ispettiva. L’analisi dei piani ha evidenziato elementi di attenzione a livello idiosincratico e ritardi potenzialmente rilevanti per un numero non trascurabile di banche; ha tuttavia messo in luce alcune buone prassi, per lo più sviluppate da LSI, che già nelle precedenti rilevazioni avevano mostrato una maggiore sensibilità ai temi ESG.
L’8 luglio 2025 la Banca d’Italia ha pubblicato l’analisi della relazione tra rischio di transizione climatica e rischio di credito esaminando le emissioni di carbonio delle imprese e le Expected Default Frequencies (EDFs) stimate da Moody’s. Per la banca centrale italiana, l’Accordo di Parigi rappresenta un punto di svolta nella relazione tra emissioni e rischio di credito. La correlazione tra livelli delle emissioni ed EDFs è divenuta positiva e statisticamente significativa.
Lo stop the clock statuito dalla Direttiva 2025/794, recepita dal D.L. Economia 95/2025, convertito in L. 118/2025, che posticipa l’entrata in vigore della Direttiva sulla Rendicontazione ESG di Sostenibilita, CSRD, e i relativi obblighi delle aziende di due diligence in materia di diritti umani e tutela dell’ambiente, sta inducendo alcune imprese italiane impegnate nella transizione green alla postergazione dell’adozione dei report di sostenibilità volontari e a focalizzare l’attenzione sul corporate wellbeing aziendale. Recenti studi internazionali hanno infatti evidenziato come ambienti di lavoro orientati al benessere comportino puntualmente incrementi del profitto.
Gli young adults, nativi digitali e nativi sostenibili, che compongono la c.d. Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), sono sempre più informati sui temi ambientali e sociali: ritengono che le aziende siano un agente chiave per fronteggiare e rimediare ai problemi socio-ambientali; riconoscono la stretta interconnessione tra salute del pianeta, benessere sociale e salute psico-fisica individuale; credono con convinzione che l’impegno individuale possa contribuire a un cambiamento concreto.
Non desta stupore quindi l’ampiezza dell’impatto reputazionale suscitato dalle decisioni del Tribunale di Milano, sezione autonoma Misure di Prevenzione, in materia di tutela dei diritti umani, che ha constatato l’inefficacia dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, ex D.Lgs. 231/2001, adottati da note case di alta moda dichiaratesi green, unitamente a un sistema di internal audit fallace. Le indagini hanno disvelato come ciascuna delle prestigiose aziende avesse affidato in appalto l’intera produzione a società terze con capacita produttiva fittizia perchè in grado di produrre esclusivamente la campionatura. A loro volta, dette società, per comprimere i costi della manodopera attraverso contratti di subappalto, avevano esternalizzato i processi produttivi a opifici a conduzione cinese in Milano, in merito ai quali le attività ispettive condotte dal Nucleo Ispettorato del Lavoro del Comando Carabinieri (NIL) hanno riscontrato l’utilizzo e lo sfruttamento di manodopera clandestina (delitto punito dall’art. 603 c.p. “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”) in ambienti insalubri, con macchinari pericolosi e dormitori abusivi.
Il Tribunale ha conseguentemente applicato, in tutti i distinti procedimenti, la misura dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34, co. 1, D.Lgs. 159/2011. Di forte impatto reputazionale anche le decisioni giurisprudenziali in materia di pubblicità ingannevole (art. 2, punto 1, lett. b del D.Lgs. 145/2007) e in materia di greenwashing (art. 12 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale), alias l’appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di
una immagine green.
Interessante, in particolare, una delle prime decisioni in materia di greenwashing (Tribunale di Gorizia 25.11.2021; RG 712/2021), secondo la quale: ≪Una pubblicità ingannevole, dunque, e un messaggio promozionale idoneo ad alterare apprezzabilmente le decisioni commerciali dei consumatori a cui è rivolto, facendogli assumere un comportamento che, altrimenti, non avrebbe tenuto, o avrebbe assunto con contorni diversi. Un concetto fondamentale per valutare la pubblicità e l’effetto aggancio sul consumatore≫.
In merito anche: Consiglio di Stato 03701/2024; Tribunale di Bologna, sez. Impresa, 6.11.2024, R.G 8205/2024; Tribunale di Bari 25.7.2023 RG 7347/2023; Cassazione Civile Sez. Unite 794/2009; Consiglio di Stato 1960/2017.
Sempre a tutela del consumatore, la recente attività dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana che ha irrogato una sanzione di un milione di euro nei confronti di una società che opera in un settore altamente inquinante, come quello dell’abbigliamento cosiddetto “usa e getta” (fast e super fast fashion), per l’utilizzo di messaggi e asserzioni ambientali (green claims) ingannevoli/omissivi.
Per l’Antitrust i claims utilizzati dalla societa per presentare, descrivere e promuovere i capi di abbigliamento hanno enfatizzato l’uso di fibre green senza indicare in maniera chiara quali siano i sostanziali benefici ambientali dei prodotti nel loro intero ciclo di vita e senza specificare che tale linea di prodotti e ancora marginale rispetto alla produzione complessiva. Claims che possono indurre i consumatori a ritenere non solo che la collezione sia stata e sia realizzata unicamente con materiali “ecosostenibili”, ma anche che i prodotti siano totalmente riciclabili; circostanza che per l’Antitrust, in considerazione delle fibre utilizzate e dei sistemi di riciclo esistenti, non è risultata veritiera.
Di pari interesse per i consumatori, la sanzione irrogata di 3,5 milioni di euro sempre dall’Antitrust nei confronti di una casa di alta moda per pratica commerciale ingannevole ai sensi del Codice del consumo. L’istruttoria e stata aperta a seguito dell’inchiesta condotta dalla procura di Milano nei confronti di una società del gruppo che ha portato il Tribunale ad applicare la misura dell’amministrazione giudiziaria ai sensi dell’art. 34, co. 1, D.Lgs. 159/2011.
Per l’Antitrust, le società del noto e prestigioso marchio hanno reso, nel Codice etico societario e in documenti pubblicati sui siti web, dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale non veritiere e presentate in modo non chiaro, specifico, accurato e inequivocabile. Dall’attività istruttoria sarebbe emerso, da un lato, che le società come strumento di marketing, per rispondere alle crescenti aspettative dei consumatori, avrebbero enfatizzato la loro attenzione alla sostenibilità e in particolare alla responsabilità sociale anche nei confronti dei lavoratori e della loro sicurezza; dall’altro lato, che le società avrebbero scelto di esternalizzare larga parte della propria produzione di borse e accessori in pelle a fornitori che, a loro volta, si sono avvalsi di subfornitori. Sempre per l’Antitrust, in diversi casi, sarebbe emerso che detti subfornitori avrebbero rimosso i dispositivi di sicurezza dai macchinari per aumentarne la capacita produttiva, in tal modo ponendo a grave rischio la sicurezza e la salute dei lavoratori. Inoltre, le condizioni igienico-sanitarie non sarebbero state adeguate, mentre i lavoratori sarebbero stati spesso impiegati totalmente o parzialmente in “nero”. In tale contesto, per l’Antitrust, il rispetto dei diritti e della salute dei lavoratori non è risultato corrispondente al tenore delle dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale diffuse ai consumatori dalle note società.
Le superiori pronunzie giurisprudenziali, l’adozione da parte del Tribunale di Milano delle misure dell’amministrazione giudiziaria e le sanzioni irrogate dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato hanno destato le preoccupazioni anche del Ministro, delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), il quale ha predisposto misure volte alla certificazione della sostenibilità e legalità del settore moda ≪per contrastare comportamenti illeciti di pochi che rischiano di compromettere la reputazione di un intero comparto≫. L’iniziativa, promossa in collaborazione con le rappresentanze di settore aderenti al Tavolo Moda – tra cui Camera Nazionale della Moda Italiana, Confindustria Moda, Altagamma, oltre a Confindustria Accessori Moda, Confartigianato e CNA Federmoda – intende tutelare l’immagine e la reputazione del “saper fare italiano” in un comparto strategico per l’economia nazionale. La certificazione vuole essere una sorta di “bollino di garanzia”, avrà durata di un anno e sarà soggetta a controlli periodici tramite ispezioni e audit. Tramite il registro pubblico che sarà istituito dal MIMIT, infatti, verrà monitorata l’adozione di eventuali misure sanzionatorie con eventuale revoca della certificazione, al venir meno dei requisiti prescritti.
Se si considera che la funzione emotiva del linguaggio pubblicitario mira a realizzare il c.d. framing (effetto ancoraggio), indicato dalla giurisprudenza italiana sopra richiamata e individuato sin dagli Anni ’60 del secolo scorso dagli psicologi cognitivi americani Daniel Kahneman e Amos Tversky, e che la comunicazione pubblicitaria promuove prodotti e/o servizi sempre più enfatizzando presunte o reali policy aziendali in favore della protezione dell’ambiente e della sostenibilità, e facile comprendere quanto l’attenzione dei consumatori e, in particolare, delle giovani generazioni verso l’adozione di scelte consapevoli sia necessaria ed essenziale.
Note:
1 La natura multipla della domanda spiega il superamento del 100%: i rispondenti potevano selezionare più ambiti
2 «Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate», Commissione Delle Comunità Europee (2001), Libro Verde. Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, Bruxelles, 7.
3 «Esse [le imprese] sono coscienti del fatto che possono contribuire allo sviluppo sostenibile gestendo le loro operazioni in modo tale da rafforzare la crescita economica e la loro competitività senza arrecare danno all’ambiente, senza sfuggire alle proprie responsabilità sociali e senza trascurare gli interessi dei consumatori», Commissione Delle Comunità Europee (2002), Comunicazione della Commissione relativa alla Responsabilità sociale delle imprese: un contributo allo sviluppo sostenibile, Bruxelles,5.
4 Si intende per tale la quota di risposte pari a 4 o 5, ossia una percezione di impatto elevato
Sarah Benettin, dottore commercialista e revisore legale, partner di Cortellazzo&Soatto, Alice Cerato, dottore commercialista e revisore legale, partner di Cortellazzo&Soatto, Susanna Galesso, dottore commercialista e revisore legale, partner di Cortellazzo&Soatto, Erika Cresti, dottore commercialista e revisore legale dello studio Schiesari & Associati, Roberto Schiesari, professore di Economia e Gestione delle imprese del Dipartimento di Management dell'Università degli Studi di Torino e dottore commercialista e revisore legale dello studio Schiesari & Associati, Linka Zangara, Avvocato dello studio Zangara, “Corporate Social Responsibility: il quadro normativo di riferimento”, nel volume “Fisco, Crisi d’impresa, ESG. Un ‘bilancio’ oltre le riforme tra criticità e prospettive”, edito da Il Sole 24 Ore per i 25 anni di ACB Group, network di studi professionali a cui Cortellazzo&Soatto aderisce fin dalla sua costituzione.
Per gentile concessione dell'Editore Il Sole 24 Ore